Categoria: Approfondimenti
Via libera alle procedure aperte per gli affidamenti sotto soglia? i chiarimenti del MIT.
Strumenti operativi per prevenire la commissione di reati presupposto in materia di Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro
Sono state pubblicate da parte di INAIL le “Linee di Indirizzo per il Monitoraggio e la Commissione dei Reati Relativi a Salute e Sicurezza sul Lavoro di cui al 25 septies del d.lgs. 231/01”, linee di indirizzo che rappresentano un utile strumento per le aziende per la conoscenza di buone pratiche organizzative che rivestano efficacia esimente delle responsabilità amministrativa degli Enti ai sensi dell’art. 25 septies del d.lgs. 231/01.
A tal proposito, preme ricordare che i reati di omicidio e lesioni colpose conseguenti alla violazione della normativa antinfortunistica possono costituire reati per i quali può essere riconosciuta la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001, nel caso in cui tali reati si realizzino nell’interesse o vantaggio dell’ente.
Il vantaggio dell’impresa può essere inteso, in tale frangente, in termini di condotta omissiva e quindi di risparmio derivante dal mancato investimento in dotazioni di sicurezza o nel mancato approntamento di strumenti di controllo sullo stato delle attrezzature, macchinari o impianti etc.
Non è sempre semplice per un’impresa individuare le modalità più opportune per una corretta organizzazione della sicurezza. La molteplicità dei rischi potenzialmente presenti e delle disposizioni normative applicabili possono, infatti, rendere difficile una corretta programmazione e gestione di tali aspetti.
Ancor più complesso è capire se il modello 231 sia aderente alle caratteristiche dell’organizzazione aziendale e, dunque, risulti uno strumento funzionale alla riduzione del fenomeno infortunistico e al miglioramento della gestione complessiva dell’attività di impresa, oltre che alla esclusione della responsabilità dell’azienda nel caso in cui si verifichi l’evento lesivo.
Capitalimprese e Inail hanno sviluppato una metodologia, adatta per tutti i tipi aziendali, per individuare soluzioni efficaci per l’applicazione di un modello organizzativo che costituisca una valida esimente ai sensi del D.lgs. 231/2001.
Il punto di partenza per l’applicazione del sistema gestionale e del modulo della prevenzione consiste nella mappatura delle aree di processo dell’Ente e delle attività sensibili che fanno parte di ciascuna area di processo.
I reati che rilevano in questa sede sono, come già detto sopra, reati colposi quindi risulta particolarmente importante individuare quali possano essere le condizioni che favoriscono gli elementi costitutivi dei delitti colposi e quali sono quelle che possono al contrario allontanarne il rischio. Lo spirito stesso della norma contenuta nel d.lgs. 231/01, confermato dall’art. 30 del d.lgs. 81/2008, oltre che della giurisprudenza in materia, pone l’accento proprio sugli aspetti organizzativi della gestione delle attività sensibili.
La chiave di volta del miglioramento continuo – secondo le linee di indirizzo in esame – è, quindi, costituita dall’integrazione fra analisi del rischio e gestione dello stesso attraverso la definizione di azioni correttive strutturate sulla base delle eventuali non conformità rilevate nel processo di auditing.
Si tratta in sostanza di mantenere sotto controllo costante i seguenti aspetti dei sistemi di gestione e del modello organizzativo 231:
– attività sensibili e aree di processo;
– sistemi di certificazione;
– procedure operative;
– documenti e comunicazioni;
– personale e figure operative coinvolte e relative responsabilità;
– scadenze;
– misurazioni e statistiche della rischiosità.
In tal modo il Modello Organizzativo 231 diventa una realtà dinamica e costantemente aggiornata, e si prepara ad esercitare la propria efficacia esimente della responsabilità penale della persona giuridica.
Gli obblighi per le aziende in materia di whistleblowing
I CCNL nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Il 1° aprile 2023 è entrato in vigore il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), le cui norme troveranno applicazione dal 1° luglio 2023.
Il decreto, che sostituisce il D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, è stato adottato per dare attuazione ai principi espressi nella legge delega 21 giugno 2022, n. 78, tra i quali rientrano:
la semplificazione delle norme;
la digitalizzazione;
la trasparenza;
la tutela dei lavoratori.
In particolare l’art. 11 disciplina il principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali e di settore e i profili relativi alle inadempienze e al ritardo dei pagamenti.
Come viene precisato anche nella relazione illustrativa, tale principio non estende l’efficacia del contratto collettivo di settore a tutti i lavoratori, ma si limita a indicare le condizioni contrattuali minime che l’aggiudicatario deve applicare al personale impiegato.
È al secondo comma che la norma in esame mostra tutta la sua portata innovativa: si prevede infatti l’obbligo per le stazioni appalti e per gli enti concedenti di indicare nei bandi e negli inviti il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione. In altre parole, il contratto collettivo da applicare al personale dipendente viene indicato negli atti di gara dalla stazione appaltante.
Emerge però una criticità: L’operatore economico può applicare un contratto collettivo differente da quello previsto in gara? se ciò è possibile, qual è il criterio per stabilire se il contratto collettivo applicato sia idoneo allo svolgimento dell’appalto?
Dalla piana lettura della norma, la risposta al primo quesito formulato sembra positiva purchè:
laddove l’operatore economico concorrente applichi un contratto collettivo differente, dovrà indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo applicato;
il predetto CCNL garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente”;
prima dell’affidamento o dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti acquisiscano la dichiarazione con la quale l’operatore economico individuato si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero la dichiarazione di equivalenza delle tutele. (…).
Gli operatori economici possono quindi applicare anche un contratto diverso da quello individuato dalla stazione appaltante (purché coerente con l’oggetto dell’appalto), ma devono dichiaralo nella propria offerta, impegnandosi ad assicurane l’applicazione per tutta la durata dell’appalto. Alla stazione appaltante resta poi il compito di valutare la dichiarazione per verificare se il contratto collettivo indicato dall’operatore economico garantisca le medesime tutele riportato negli atti di gara.
Tuttavia le norme in commento non sembrano risolvere a pieno la problematica, perché vi possono essere casi in cui siano individuabili più contratti collettivi molto diversi tra loro, con caratteristiche e standard di tutela differenti (si pensi al caso di un appalto di fornitura, che preveda anche il trasporto e il montaggio).
Le medesime condizioni vengono inoltre garantite ai subappaltatori. Anche l’operatore economico che agisce in subappalto sarà quindi chiamato ad applicare il contratto collettivo nazionale indicato negli atti di gara, ovvero uno che garantisca ai propri dipendenti le medesime tutele.
Resta in essere quanto già previsto dal vecchio codice con riferimento all’intervento sostitutivo della stazione appaltante nel caso di inadempienze contributive o retributive dell’impresa affidataria o del subappaltatore.
In particolare:
– In caso di inadempienza contributiva risultante dal documento unico di regolarità contributiva (DURC) relativo a personale dipendente dell’affidatario (o dell’eventuale subappaltatore) impiegato nell’esecuzione del contratto, la stazione appaltante trattiene dal certificato di pagamento l’importo corrispondente all’inadempienza ed esegue il versamento diretto agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile. Sull’importo netto progressivo delle prestazioni viene operata una ritenuta dello 0,50 per cento. Le ritenute possono essere svicolate soltanto dopo il collaudo o la verifica di conformità, in sede di liquidazione finale, qualora sia stato rilasciato il DURC;
– Nel caso di ritardo nel pagamento dovuto al personale dipendente, il RUP invita per iscritto il soggetto inadempiente, ed in ogni caso l’affidatario, a provvedervi entro i successivi 15 quindici giorni. Qualora non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine suddetto la stazione appaltante paga anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’affidatario del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto.
Conclusioni:
Senza dubbio l’art. 11 del D.lgs. 36/2023 amplia la tutela per il personale dipendente impiegato negli appalti pubblici.
Tuttavia, come abbiamo visto, restano aperte questioni non di poco conto, non essendo sempre possibile individuare in modo coerente il contratto collettivo applicabile all’appalto in questione.
Sarà quindi importante verificare in sede di applicazione quale sarà la prassi che si consoliderà ed eventualmente i criteri suggeriti dalla giurisprudenza per la corretta individuazione del contratto collettivo/dei contratti collettivi applicabili nelle varie tipologie di appalto.
È possibile controllare un dipendente tramite un investigatore privato?
PREMESSA
Il tema della possibilità per il datore di lavoro di richiedere l’intervento di un’agenzia investigativa per “controllare” un dipendente è assai delicato, andando a coinvolgere due contrapposti interessi, da un lato la riservatezza personale dei lavoratori, dall’altro l’interesse economico dell’azienda a fronte di possibili illeciti del proprio sottoposto.
Va tuttavia fin da subito precisato che né lo Statuto dei lavoratori, né altre norme di legge precludono in via assoluta al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative per controllare i dipendenti, e la giurisprudenza di legittimità ammette pacificamente l’utilizzabilità delle risultanze investigative ai fini disciplinari e quindi, anche per provare la giusta causa di un licenziamento.
Ricorrere a tali modalità di indagine si ritiene generalmente giustificato non solo per dimostrare l’avvenuta perpetrazione degli illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o dell’ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione.
LIMITI
Ciò premesso, va tuttavia rilevato che tale tipologia di controlli per essere validi, non possono in nessun caso consistere nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria.
L’attività investigativa disposta dal datore deve, dunque, avere ad oggetto l’accertamento di condotte illecite diverse dal solo adempimento della prestazione lavorativa.
Lo Statuto dei Lavoratori, infatti, riserva quest’ultimo tipo di controllo proprio al datore di lavoro e alla propria organizzazione gerarchica e non consente che venga affidato a soggetti terzi alla struttura aziendale.
Deve trattarsi, in altre parole, di controlli finalizzati ad accertare l’esistenza di fatti illeciti, anche penalmente rilevanti, che possono avere una rilevanza indiretta nel rapporto lavorativo, incidendo nella valutazione dell’aspetto fiduciario, ovvero del rispetto degli obblighi di lealtà, fedeltà e correttezza da parte del lavoratore.
Per spiegarci meglio vediamo alcuni casi pratici analizzati da alcune sentenze della Corte di Cassazione.
CASI PRATICI
ABUSO DEI PERMESSI EX L. 104/1992
È legittimo il controllo demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 della L. 5 febbraio 1992 n. 104 (comportamento suscettibile di rilevanza anche penale).
Tale controllo, infatti, non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso.
ALLONTANAMENTO NON AUTORIZZATO DAL LUOGO DI LAVORO
Al contrario, non è considerato legittimo l’utilizzo delle risultanze investigative da parte del datore di lavoro privato finalizzate ad accertare che il lavoratore durante l’orario di lavoro sia solito allontanarsi dal posto di lavoro senza autorizzazione, per occuparsi di attività personali esterne alla sede di lavoro ed estranee alle proprie mansioni.
La Cassazione ha recentemente stabilito che tali tipo di controlli sono inammissibili in quanto rientranti nel controllo della prestazione lavorativa vietati dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e dei doveri di buona fede e correttezza.
Le risultanze non possono quindi essere utilizzate per finalità disciplinari neppure se raccolte, indirettamente, durante un controllo investigativo legittimamente disposto nei confronti di un altro dipendente.
SIMULAZIONE MALATTIA
È, invece, pacificamente ritenuto legittimo il controllo investigativo finalizzato ad accertare fatti idonei a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza del lavoratore. Rispetto a tale specifico aspetto la giurisprudenza ha ritenuto che in tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all’art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza ad effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza.
ABUSO DEI CONGEDI PARENTALI
È legittimo, inoltre, il controllo tramite agenzia finalizzato ad accertare l’abuso da parte del lavoratore del diritto potestativo di congedo parentale. In tali casi, però affinché il licenziamento sia legittimo occorre accertare che il diritto venga esercitato per la maggior parte del tempo, non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività, come esercitare un altro impiego di lavoro o per attività del tutto estranei alla tutela e assistenza del minore.
CONCORRENZA SLEALE
Sono stati, in alcuni casi, ritenuti legittimi i controlli mirati all’accertamento della violazione del divieto di concorrenza del dipendente in corso di rapporto (tra cui si segnala il caso dell’estetista che nel giorno di riposo esercitava l’attività in proprio presso il suo domicilio), perché non riguarda lo svolgimento del lavoro, ma un illecito commesso fuori dell’orario di servizio e comunque passibile di conseguenze dannose per l’azienda.
CONCLUSIONI
Prima di ricorrere all’utilizzo di un’agenzia investigativa occorre valutare attentamente la finalità della richiesta, tenendo presente che i relativi risultati, seppur comprovanti un comportamento inadempiente del lavoratore, non sempre possono essere validamente utilizzati per fondare un procedimento disciplinare per licenziamento, a prescindere dalla gravità della condotta accertata.
È sempre opportuno, dunque, affidarsi ad un consulente esperto per un’attenta valutazione preliminare della problematica emersa e dell’esigenza dell’azienda.
La liquidazione giudiziale: le principali novità introdotte dal Codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza
Il 15 Luglio 2022 è entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (in forma abbreviata C.C.I.I.) di cui al D.lgs. n. 14 del 12.01.2019, che è stato oggetto di un primo intervento correttivo nel 2020 (D.lgs. 26.10.2020, n. 147) e di un recente ed ulteriore aggiornamento normativo nel 2022 (d.lgs. 17 giugno 2022, 83) finalizzato a dare attuazione alla cd. Direttiva Insolvency (Dir. UE 2019/1023 del 20 giugno 2019).
Dalla lettura del nuovo C.C.I.I. si evince che, le norme relative al procedimento di liquidazione giudiziale (artt. da 121 a 283 del C.C.I.I.), sono state collocate dal legislatore dopo le norme dirette a regolamentare le altre procedure concorsuali; ciò a dimostrazione del fatto che, la liquidazione giudiziale costituisce una procedura avente carattere residuale rispetto agli altri procedimenti che, al contrario, favoriscono la continuità aziendale ed il risanamento dell’impresa.
A di là delle innovazioni terminologiche, quale a titolo di esempio, la sostituzione della parola “fallimento” con quella di “liquidazione”, la disciplina dettata dal C.C.I.I. ha mantenuto invariate le caratteristiche principali della procedura, introducendo una riorganizzazione dell’assetto normativo precedente al fine di rendere la “nuova” procedura liquidatoria più rapida e snella.
PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
Infatti, con riferimento al presupposto soggettivo, l’art. 121 C.C.I.I. stabilisce che le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino di essere “imprese minori” secondo i requisiti previsti dall’art. 2, co. 1, lett. d), C.C.I.I.
Per “imprese minori”, si intendono quelle imprese che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:
un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 300.000,00 nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;
ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 200.000,00 nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;
un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
Le norme sulla liquidazione giudiziale si applicano quindi nei confronti dell’imprenditore commerciale, con esclusione delle imprese agricole, dei professionisti e dei consumatori nei cui confronti sono applicabili, al contrario, le norme relative alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento.
PRESUPPOSTO OGGETTIVO
Relativamente al presupposto oggettivo, è necessaria la sussistenza in capo al debitore dello “stato di insolvenza”, come definito dall’art. 2, co. 1, lett. b), C.C.I.I. e che si sostanzia in azioni di inadempimento o altri fatti esteriori, tali da dimostrare che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Rimane comunque fermo il principio per cui non si fa luogo alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore ad euro 30.000,00.
LEGITTIMAZIONE
La legittimazione a richiedere l’apertura della procedura liquidatoria, ai sensi dell’art. 37, comma 2, C.C.I.I., è riconosciuta al debitore, ad uno o più creditori o al pubblico ministero; tuttavia, è prevista dal nuovo Codice la legittimazione degli organi e delle autorità amministrative aventi funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa.
PROCEDIMENTO DI LIQUIDAZIONE
Per quanto attiene allo svolgimento del procedimento di liquidazione, la disciplina dettata dal nuovo C.C.I.I. ricalca sostanzialmente quella delineata dalla legge fallimentare.
Viene infatti previsto un termine di convocazione delle parti non inferiore a 15 giorni rispetto alla data di notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, al fine di garantire un adeguato diritto di difesa e salva la possibilità di abbreviazione dei termini nei casi di urgenza. Inoltre è prevista la possibilità di delega, da parte del Tribunale, al giudice relatore, ai fini dell’audizione delle parti, dell’ammissione e dell’espletamento dei mezzi istruttori.
I singoli atti di liquidazione devono essere autorizzati dal giudice delegato, che ne valuta la conformità al programma approvato (art. 213, comma 7, C.C.I.I.).
Le modalità di liquidazione sono disciplinate dall’art. 216 C.C.I.I., che dispone che la vendita dei beni sia effettuata con procedure competitive e con modalità telematiche, tramite il portale delle vendite pubbliche, salvo che tali modalità siano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori.
Il giudice delegato, oltre a determinare le modalità di liquidazione dei beni, può anche ordinare la liquidazione di beni immobili occupati dal debitore (salvo che non si tratti della sua abitazione) o da terzi in forza di titolo non opponibile al curatore.
PROCEDURA
Una novità rilevante riguarda l’intervento di terzi nel corso del procedimento, che sarà sempre possibile, ovviamente se si tratta di terzi legittimati alla presentazione della domanda di apertura della procedura, fino a quando il giudice delegato o il Tribunale non si riservino per la decisione.
È stato previsto altresì l’obbligo per la cancelleria, a seguito del deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo, di acquisire mediante collegamento telematico diretto alle banche dati dell’Agenzia delle entrate, dell’Inps e del registro delle imprese, i dati e i documenti relativi al debitore.
L’art. 43 C.C.I.I. disciplina poi la fattispecie della rinuncia alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale, stabilendo che il procedimento si estingua, con possibilità di condanna alle spese della parte che ha dato avvio al giudizio.
Nell’ottica di una maggiore celerità, il curatore, previa autorizzazione del comitati dei creditori, potrà non acquisire o rinunciare alla liquidazione di beni, se l’attività di liquidazione appare manifestamente non conveniente; tale mancanza di convenienza si presume se, dopo 6 tentativi di vendita, non ha fatto seguito l’aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l’attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi (art. 213, comma 2, C.C.I.I.).
ACCERTAMENTO DEL PASSIVO
In merito all’accertamento dello stato passivo, l’art. 201, comma 1, C.C.I.I. stabilisce che la procedura di accertamento del passivo venga estesa anche alle “domande di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui” e quindi a quei creditori che non sono tali nei confronti del debitore, ma in favore dei quali lo stesso debitore si è posto come terzo datore di ipoteca.
Per quanto riguarda le domande tardive, l’art. 208 C.C.I.I. ha previsto la riduzione da 12 mesi a 6 mesi dal decreto di esecutività dello stato passivo per la presentazione di tali domande; con riferimento alle domande cd. “supertardive”, è stata prevista la possibilità di una declaratoria di inammissibilità con decreto del giudice delegato, “quando la domanda risulta manifestamente inammissibile perché l’istante non ha indicato le circostanze da cui è dipeso il ritardo o non ne ha offerto prova documentale o non ha indicato i mezzi di prova di cui intende valersi per dimostrarne la non imputabilità” (art. 208, comma 3, C.C.I.I.)”.
Per garantire la speditezza e celerità della procedura, è stato inoltre stabilito che nel programma deve essere indicato “il termine entro il quale avrà inizio l’attività di liquidazione dell’attivo ed il termine del suo presumibile completamento”, che non potrà eccedere i 5 anni dal deposito della sentenza, salvi i casi di eccezionale complessità, in cui questo termine può essere differito a 7 anni dal giudice delegato.
Il procedimento per il riparto è poi disciplinato dagli artt. 220 ss. C.C.I.I., con invio telematico del progetto di ripartizione ai creditori, che hanno quindici giorni di tempo dalla comunicazione per proporre reclamo.
Le somme ricavate dalla liquidazione sono erogate ai creditori secondo l’ordine di ripartizione stabilito dall’art. 221 C.C.I.I., che riproduce l’attuale art. 111 l. fall.
La chiusura della procedura avviene, di regola, al termine del riparto finale.
L’art. 233 C.C.I.I. disciplina le ipotesi di chiusura, che sono le stesse dell’attuale art. 118 l. fall., tuttavia con la opportuna precisazione che, nei casi di chiusura di procedure relative a società di capitali per mancanza di passivo, o per integrale pagamento dei crediti, la società ritorna in bonis, e il curatore provvede a convocare l’assemblea ordinaria dei soci per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell’attività o della sua cessazione.
ESERCIZIO PROVVISORIO
L’art. 211 C.C.I.I. dispone che, a determinate condizioni, l’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa, quando “dall’interruzione può derivare un grave danno, purché la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”.
L’esercizio provvisorio può essere disposto dal Tribunale già con la sentenza che dichiara aperta la procedura di liquidazione giudiziale, ovvero successivamente dal giudice delegato, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 211, comma 3, C.C.I.I.).
Resta ferma comunque la possibilità per il Tribunale di ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento, laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto assunto in camera di consiglio, sentiti il curatore e il comitato dei creditori (art. 211, comma 7, C.C.I.I.).
Un’alternativa all’esercizio provvisorio, sempre al fine di conservare i beni aziendali, è data dall’affitto di azienda, che può essere autorizzato dal giudice delegato anche prima della presentazione del programma di liquidazione, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 212 C.C.I.I.).
OBBLIGO DI PROGRAMMAZIONE PER IL CURATORE
La nuova disciplina, ha introdotto un’importante novità anche con riferimento al ruolo del curatore, confermando la necessità di una programmazione, da parte dello stesso delle attività di liquidazione, stabilendo che, entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario e, in ogni caso, entro 180 giorni dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, il curatore debba predisporre il programma di liquidazione, da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori (art. 213, comma 1, C.C.I.I.).
Articolo scritto da Avv. Francesca Pelli
L’etichetta del vino come strumento di marketing: come registrare un marchio e proteggere il brand
Per ogni azienda vinicola l’etichetta posta su ogni bottiglia costituisce la carta di identità del vino che viene messo in commercio.
In essa l’imprenditore raccoglie tutte le informazioni sia prescritte dalla legge che in base alla libera scelta del produttore, quali ad esempio la denominazione di origine, la provenienza, l’uvaggio, la gradazione alcolica, il volume, l’annata, ecc. Tali informazioni sono strategiche e strumentali per far identificare e conoscere le caratteristiche del prodotto al consumatore.
L’etichetta, determinando il primo contatto del consumatore con il vino, non è tuttavia utilizzata dalle aziende al solo fine di informare il consumatore circa le caratteristiche tecniche di un dato prodotto, ma altresì per differenziare il proprio brand dalla concorrenza
Sotto tale aspetto, è innegabile che i consumatori acquistino prima con gli occhi fondando la loro scelta di acquisto sull’impatto visivo.
Se prendiamo a riferimento uno studio di wine.it effettuato su un campione di 2.000 bevitori di vino, l’82% afferma che la decisione di acquistare un vino piuttosto che un altro, dipende dall’etichetta.
Ed allora come può un produttore vinicolo far sì che, su uno scaffale ove sono posizionati una moltitudine di prodotti (magari con le medesime caratteristiche), la sua bottiglia di vino prodotta catturi maggiormente l’attenzione o susciti la curiosità del consumatore?
Di certo, un’azienda vinicola non può prescindere da uno studio dei segni distintivi che, congiuntamente alle altre indicazioni tipiche presenti su tutte le bottiglie di vino, possono essere posti sul’etichetta al fine di rendere il prodotto maggiormente attrattivo ed appetibile rispetto a ciò che si trova sul mercato.
I segni distintivi possono essere figure (il logo dell’azienda, un’immagine della tenuta o delle vigne, un altro simbolo che caratterizza la casa vinicola oppure un’immagine di fantasia che sia distintiva della produzione, ecc.), ovvero parole (il nome dell’azienda, il nome del vino, ecc.).
Si riporta a titolo esemplificativo l’etichetta di una nota azienda vinicola sita nel cuore della Toscana, in cui sono presenti (oltre alla provenienza, all’annata ed alla denominazione), diversi segni caratterizzanti la bottiglia di vino:
– il logo dell’azienda
– il nome del vino “AltoRe”
– il nome dell’azienda “Chioccioli”
Attraverso l’etichetta caratterizzata da tali segni e ponendo in primo piano lo stemma che rappresenta il logo dell’azienda ed il nome del vino, il produttore ha potuto dare un’identità al proprio vino, ed ha altresì potuto differenziare la sua bottiglia di vino da ogni altro vino I.G.T. della Toscana del 2013.
Al fine di differenziare il proprio brand e rendere la bottiglia di vino più interessante per il consumatore è di assoluta rilevanza lo studio dei segni distintivi ed, in particolare, il loro impatto visivo e la loro forza attrattiva e distintiva.
Così come di assoluta rilevanza è, conseguentemente, la protezione dei segni distintivi e la lotta ad ogni condotta di contraffazione tenuta dalle ditte concorrenti che si concretizza nell’uso dei segni distintivi identici o simili rispetto a quelli utilizzati dalla propria azienda.
Lo strumento di protezione che offre l’ordinamento nazionale è la registrazione del marchio come definito dal Codice della proprietà industriale (CPI), emanato con Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, quale “segno distintivo del prodotto dell’impresa”.
In forza dell’art. 7 del D.L. possono costituire oggetto di REGISTRAZIONE DEL MARCHIO tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente purché siano atti a distinguere prodotti o servizi di un’impresa da quelli delle ditte concorrenti.
Un segno per poter essere registrato deve rispettare i requisiti di novità, capacità distintiva e liceità.
Un segno non può pertanto essere registrato se:
à esistono registrazioni di segni identici o simili al segno che si vuole tutelare anteriori alla nostra domanda;
à è costituito da sole denominazioni generiche (ad esempio la parola “vino”), od indicazioni descrittive (ad esempio le parole “vino bianco” e “vino rosso”);
à è contrario alla legge, al buon costume ed all’ordine pubblico, idoneo ad ingannare il pubblico, o idoneo il diritto di proprietà intellettuale altrui.
Una volta verificata la sussistenza dei menzionati presupposti sarà possibile procedere con il deposito della domanda di registrazione per i segni che si intende inserire sull’etichetta.
Il produttore può decidere di proteggere il proprio segno distintivo:
– sul territorio nazionale: in tal caso per la registrazione del marchio sarà necessario rivolgersi all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi;
– sul territorio comunitario: in tal caso è possibile procedere, alternativamente, con la registrazione del cd. Marchio comunitario presso l’European Union Intellectual Property Office così che la protezione del segno sia estesa a tutti gli Stati facenti parte dell’Europea, ovvero con la registrazione del proprio marchio nei singoli Stati rivolgendosi all’Ufficio di volta in volta competente;
– sul territorio estero: in tal caso si può procedere con l’estensione di un marchio già registrato in Italia od in Europa presso il World Intellectual Property Organization, ovvero con l’ordinaria procedura di registrazione da effettuarsi presso l’Ufficio competente del singolo Stato.
La domanda potrà avere ad oggetto la REGISTRAZIONE DI UN MARCHIO DENOMINATIVO, ossia di una parola (nel nostro esempio, la parola “altore” e la parola “chioccioli”) o di una combinazione di parole e ciò garantisce che per la stessa categoria di prodotti non possa essere utilizzata la parola o la combinazione di parole sottoposte a tutela in ogni forma, font e dimensione.
Tale registrazione è suggerita nelle ipotesi in cui il segno composto unicamente da parole che il titolare intende utilizzare in forme e caratteri diversi. Riprendendo il nostro esempio, la parola “altore” registrata come marchio denominativo garantirebbe al produttore che essa non possa essere utilizzata come rappresentata sull’etichetta con le lettere A e R maiuscole, ma neppure in diverso carattere (ad esempio “ALTORE”, “altore”, “AlToRe”) o con diverso font rispetto a quello utilizzato (ad esempio “AltoRe”, “AltoRe”).
La domanda potrà poi avere ad oggetto la REGISTRAZIONE DI UN MARCHIO FIGURATIVO quando il segno possiede una grafica personalizzata e/o dei caratteri di fantasia e/o dei colori e/o un logo (nel nostro esempio, lo stemma rappresentato sull’etichetta dell’azienda Chioccioli).
Ciò garantisce la tutela dell’esteriorità del marchio e, dunque, di come appare al consumatore in quella specifica forma, dimensione, colore e stile, così che non potrà essere utilizzato da terzi anche se associato ad una diversa parola o frase per distinguere prodotti identici o affini a quelli del suo titolare.
Per la registrazione del marchio occorre poi individuare la classe ed i prodotti ed i servizi in ordine ai quali si procede alla registrazione del marchio, così da delineare a livello oggettivo, i confini di protezione dello stesso e l’ambito all’interno del quale il segno non potrà essere utilizzato da terzi.
Se l’azienda produce unicamente vino ed appone i propri segni solo sull’etichetta delle bottiglie di vino del materiale ad esse connesso potrà procedere con la registrazione dei servizi della classe 33 che comprendere genericamente le bevande alcoliche (eccetto le birre) ed i preparati alcolici per fare bevande; altrimenti dovranno essere individuate ed inserite nella domanda le diverse classi ed i diversi prodotti per i quali il marchio vuole essere utilizzato.
A seguito del deposito la domanda sarà pubblicata e sottoposta a controllo sia da parte dell’Ufficio competente che di terzi e, in caso di mancanza di osservazioni, sarà poi comunicata l’avvenuta registrazione del segno distintivo che – salvo ritardi dell’Ufficio – perviene al titolare nei sei mesi successivi al deposito della domanda.
La protezione del marchio (sia italiano che comunitario) si estende per dieci anni decorrenti dalla data di deposito della domanda di registrazione, data a decorrere dalla quale in virtù dell’art. 20 del CPI il titolare del marchio ha facoltà di fare un uso esclusivo ovvero di vietare a terzi l’uso o la registrazione di un marchio identico per prodotti identici o affini.
Articolo scritto da Avv. Benedetta Bacci
Direttiva “OMNIBUS” e indicazione annunci di riduzione del prezzo nelle vendite on line.
La Direttiva98/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (“direttiva sull’indicazione dei prezzi”) ha come obbiettivo quello di far valutare ai consumatori e dunque raffrontare il prezzo dei prodotti sulla base di informazioni omogenee e trasparenti. Tale direttiva è stata modificata dalla direttiva(UE) 2019/2161 del parlamento europeo e del consiglio che ha introdotto norme specifiche (articolo 6 bis) per gli annunci di riduzione di prezzo cosiddetta “direttiva Omnibus”.
A differenza di altri Stati dell’Unione Europea, che hanno già portato a termine il processo di implementazione della direttiva Omnibus, in Italia l’iter di recepimento è ancora in corso. Il 26 agosto 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 127 del 4 agosto 2022, contenente la Delega al Governo per il recepimento e l’attuazione di alcune direttive e atti normativi dell’Unione europea, tra le quali la direttiva in questione, che è entrata in vigore il 10 settembre 2022; il Governo dovrà adottare i decreti legislativi di recepimento della direttiva Omnibus entro tre mesi da tale data.
Tuttavia, il testo della Diretta Omnibus è già sufficientemente dettagliato ed una delle maggiori innovazioni è la disposizione che introduce una disciplina specifica sugli sconti (definiti come “annunci di riduzione di un prezzo”), finora mai disciplinati in maniera adeguata a livello europeo; ebbene, per tale disposizione c’è margine di immediata applicazione, visto che gli annunci debbono indicare il prezzo precedente (applicato durante un periodo pregresso, non inferiore a 30 giorni) applicato dal professionista per un determinato periodo di tempo prima dell’applicazione dello sconto.
La direttiva Omnibus modifica la Direttiva98/6/CE aggiungendo l’articolo 6 bis:
Qualsiasi annuncio di una riduzione di prezzo deve indicare il prezzo precedentemente applicato dal commerciante per un determinato periodo prima della riduzione di prezzo.
Il prezzo precedente significa il prezzo più basso applicato dal commerciante durante un periodo non inferiore a trenta giorni prima dell’applicazione dello sconto.
Gli Stati membri possono prevedere regole diverse per le merci che possono deteriorarsi o scadere rapidamente.
Se il prodotto è sul mercato da meno di 30 giorni, gli Stati membri possono anche prevedere un periodo più breve di quello previsto al paragrafo 2.
Gli Stati membri possono prevedere che, in caso di aumento graduale della riduzione di prezzo, per prezzo precedente si intenda il prezzo senza riduzione prima della prima applicazione dello sconto.
La norma così come formulata lascia tuttavia aperte alcune questioni interpretative ed a fare chiarezza, al di là delle singole legislazioni nazionali, è intervenuta la Comunicazione della Commissione Europea “Orientamenti sull’interpretazione e l’applicazione dell’art. 6 bis della direttiva 98/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla protezione dei consumatori in materia di indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori” (2021/C 526/02).d e chiarisce il significato di riduzione di prezzo e dunque dettaglia come deve essere annunciata:
– in termini percentuali (%) ad esempio sconto del 20% o assoluti, ad esempio sconto di 10 euro;
– indicando un nuovo prezzo inferiore assieme al prezzo indicato in precedenza (più elevato). Esempio: “ora 50 euro” – “in precedenza 100 euro”; oppure 50 euro /100 euro; –
-mediante tecniche promozionali ad esempio “acquista oggi e non paghi IVA”;
– presentando il prezzo attuale come prezzo di lancio o simile ed indicando un prezzo più elevato quale prezzo normale applicato in futuro.
La comunicazione chiarisce che l’art. 6 bis, da un lato si applica indipendentemente dal fatto che l’annuncio di una riduzione di prezzo indichi una riduzione misurabile o meno. Ad esempio, anche gli annunci quali saldi, offerte speciali, o offerte Black Friday che creano l’impressione di una riduzione di prezzo sono soggetti all’articolo 6 bis e dall’altro, che l’articolo non si applica agli annunci pubblicitari di carattere generale che promuovono l’offerta del venditore confrontandola con quelle di altri venditori senza evocare o creare l’impressione di una riduzione di prezzo, così come non si applica nemmeno ad altre tecniche di promozione di vantaggi di prezzo, quali i confronti tra prezzi o le offerte vincolate.
In merito all’indicazione del prezzo precedente, deve essere precisato che la direttiva sebbene faccia rinvio anche alle singole norme nazionali prevede che gli Stati membri non possono prevedere un periodo inferiore a 30 giorni per la determinazione del prezzo precedente. Lo scopo di tale periodo di riferimento è evitare che i professionisti alterino i prezzi e ne presentino riduzioni fasulle, ad esempio aumentando il prezzo per un breve periodo e poi applicando la riduzione che induce i consumatori in errore.
Relativamente alle riduzioni di prezzo graduali, i singoli Paesi possono decidere nelle proprie norme di recepimento diverse modalità applicative, tuttavia la direttiva riconosce espressamente che in caso di aumento graduale della riduzione, come potremo definire il periodo dei saldi, si possa far riferimento esclusivamente al prezzo precedente individuato nel prezzo più basso applicato nei trenta giorni antecedenti la prima riduzione.
A tal proposito una riflessione deve essere fatta sul prezzo iniziale che deve essere indicato in caso di due campagne successive ma separate nell’arco di un periodo temporale inferiore ai 30 giorni.
Il professionista che annuncia la riduzione di prezzo deve indicare il prezzo più basso che ha applicato per il bene o i beni interessati almeno negli ultimi trenta giorni precedenti la riduzione (“prezzo precedente”). Questo prezzo più basso indicato include qualsiasi precedente prezzo ridotto durante questo periodo.
Pertanto la riduzione del prezzo deve essere presentata utilizzando il prezzo “precedente” indicato come riferimento, ovvero l’eventuale riduzione indicata in percentuale deve essere basta sul prezzo “precedente”. Ad esempio quando l’annuncio è uno sconto del 50% e il prezzo più basso degli ultimi trenta giorni è 100 euro, il venditore dovrà indicare 100 euro come prezzo precedente da cui calcolare la riduzione del 50% anche se il prezzo di listino era 160 euro.
In sostanza il prezzo indicato deve essere quello “precedente” (il più basso applicato nei trenta giorni antecedenti alla riduzione) all’inizio di ogni riduzione e può essere mantenuto per tutta la riduzione. La riduzione può essere pubblicizzata anche per un periodo più lungo di trenta giorni e se è ininterrotta, il prezzo “precedente” che deve essere indicato resta il prezzo più basso applicato almeno nei trenta giorni precedenti la riduzione.
Infine, con riferimento alla fattispecie dei Saldi privati, il testo della direttiva non prevede una disciplina specifica e la Comunicazione della Commissione Europea è intervenuta sull’argomento chiarendo alcuni aspetti.
Anzitutto, l’articolo 6 bis della direttiva sull’indicazione dei prezzi non si applica ai programmi di fedeltà dei clienti messi in atto dal venditore, quali buoni o carte di sconto, che permettono al consumatore di usufruire di uno sconto sul prezzo di tutti i prodotti o su specifiche gamme di prodotti del venditore per periodi di tempo continui e prolungati (ad esempio sei mesi o un anno), o grazie ai quali è possibile accumulare crediti (punti) in vista di acquisti futuri. L’articolo 6 bis della direttiva in questione non si applica nemmeno alle riduzioni dei prezzi personalizzate, che non prevedono l’annuncio della riduzione di prezzo.
Per contro, si applicherà alle riduzioni di prezzo che, seppure presentate come “personalizzate”, sono in realtà offerte/annunciate ai consumatori in generale. Una situazione di questo tipo potrebbe verificarsi qualora il professionista renda disponibili dei «buoni» o codici di sconto a potenzialmente tutti i consumatori che ne visitano il negozio fisico od online durante periodi specifici. Tra gli esempi figurano campagne quali:
–
“oggi sconto del 20 % usando il codice XYZ”; o
“questo fine settimana sconto del 20 % su tutti gli articoli solo per gli iscritti al programma di fedeltà”,
in cui il codice/programma di fedeltà è accessibile/utilizzato da molti clienti o dalla maggior parte di essi.
In questi casi il professionista deve rispettare gli obblighi di cui all’articolo 6 bis, ossia garantire che il prezzo «precedente» di tutti i beni interessati sia il prezzo più basso pubblicamente disponibile praticato negli ultimi 30 giorni.
In conclusione, si evidenzia che il mancato rispetto di quanto previsto dalla direttiva Omnibus introduce sanzioni che possono arrivare fino al 4% del fatturato annuo della società nello Stato membro (o negli Stati Membri interessati) in cui si è verificata la violazione, o di 2 milioni di euro nei casi in cui non siano disponibili informazioni sul fatturato. Inoltre, gli Stati Membri possono prevedere e introdurre sanzioni più elevate rispetto a quelle indicate nella Direttiva.