Approfondimenti

Fake news, quando si integra un reato?

Alzi la mano chi non si è mai imbattuto in una fake news.

Nell’epoca di internet, dei giornali on line, dei blog, dei social è praticamente impossibile non aver mai trovato – e magari creduto – ad una fake news. Poco importa se si tratta di notizie divertenti, magari riguardanti qualche strana specie animale o tradizione popolare, ma in alcuni casi le notizie false, esagerate, sbagliate o distorte possono avere una rilevanza tale da costituire un vero e proprio reato.

In base all’interpretazione giurisprudenziale, è falsa “la notizia completamente difforme dal vero, priva di fondamento”; è esagerata “la notizia che, pur basandosi su un fondamento di verità risulta amplificata, ingrandita e iperbolica”; è tendenziosa “la notizia che, pur riferendo cose vere, viene presentata in modo da ingenerare in chi la apprende una rappresentazione deformata della realtà”.

In presenza di simili caratteristiche, la notizia potrebbe avere una rilevanza penale e il suo autore (o colui che semplicemente ha contribuito alla sua diffusione) potrebbe incorrere in una sanzione addirittura penale.

I reati che possono essere integrati diffondendo una fake news sono molteplici:

In tempo di guerra, la diffusione di notizie false è punita dall’art. 265 c.p., che disciplina il Disfattismo politico, che punisce chiunque diffonda o comunichi voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico.

Anche in tempo di pace le notizie false possono costituire reato, ove vadano a ledere l’ordine pubblico e la tranquillità sociale. Basti pensare al delitto di aggiotaggio che punisce chiunque diffonde notizie false concretamente idonee ad alterare il mercato; al reato di pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, che sanziona chi pubblica o diffonde una notizia falsa, esagerata o tendenziosa idonea a turbare l’ordine pubblico; al reato di procurato allarme presso l’Autorità, per tutti coloro i quali annunciando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscitando allarme presso l’Autorità o esercenti di pubblico servizio; o ancora al reato di abuso della credulità popolare, che punisce chiunque pubblicamente cerca di abusare della credulità popolare, ove dal predetto fatto possa derivare un turbamento dell’ordine pubblico.

Infine, evidente è il legame con la diffamazione, ove la notizia falsa su una o più determinate persone sia potenzialmente idonea a offenderne la reputazione determinando il discredito e la lesione dell’onore di essa o di esse all’interno della cerchia sociale, dell’ambiente lavorativo, familiare. Quando poi la notizia viene diffusa mediante internet la diffamazione si manifesta nella sua forma aggravata.

A tal proposito, peraltro, come ha chiarito da sempre la giurisprudenza, “…non è necessario che la persona cui l’offesa è diretta sia nominativamente designata, essendo sufficiente che essa sia indicata in modo tale da poter essere individuata in maniera inequivoca…”. Questo principio appare particolarmente rilevante in materia di fake news diffuse a mezzo social. Ciò in quanto, molto spesso, coloro che diffondono tali notizie, insultano o diffamano chi si oppone alle loro teorie, ma sono convinti di non incorrere nel delitto in esame non nominando espressamente le persone, ma sostituendo i nomi con nomignoli o appellativi di vario genere che in realtà non schermano l’identità del destinatario delle offese che rimane sempre facilmente individuabile da coloro che leggono la notizia.

Altrettanto evidente è il rapporto problematico con la libera manifestazione del pensiero, diritto tutelato costituzionalmente dall’art. 21 della Costituzione. Ciò che, però, tutti non sanno è che la stessa Costituzione pone dei limiti al suddetto diritto in alcune e specifiche circostanze. Una di queste è senz’altro la lotta alle c.d. fake news, ossia la pubblicazione di notizie false o esagerate con foto e titoli sensazionalistici per attirare “clic” sulle proprie pagine o blog e – sempre più spesso – guadagnare in base al numero delle visualizzazioni.

Ed allora, colui che pubblica una notizia deve verificare la corrispondenza rigorosa dei fatti accaduti con quelli narrati (principio della verità), l’esistenza di un interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza dei fatti narrati (principio della pertinenza) e deve esprimere il proprio pensiero in modo corretto e composto, evitando aggressioni gratuite all’altrui reputazione (principio della continenza).

In presenza di queste caratteristiche, il reato di diffamazione non viene integrato in quanto scriminato dall’esercizio del diritto di cronaca, di critica e di satira.

Tra i tre principi enucleati dalla giurisprudenza il principio della verità della notizia è quello che maggiormente si presenta di immediato interesse per la tematica delle fake news, in quanto appare del tutto evidente che le notizie false, violando tale principio, non potranno mai essere scriminate sulla base del diritto di cronaca. Tuttavia, il problema non è di così facile soluzione perché che vi sono vari livelli e modi di falsificazione e/o manipolazione della realtà e, in materia di fake news, soprattutto quando esse si innestano in una più ampia narrazione complottistica, si cerca di affermare che “è proprio la fake news ad essere la verità”.

Occorre pertanto prestare molta attenzione al contenuto delle notizie che vengono pubblicate, facendo ricorso non soltanto a verifiche sulla fonte e/o sul contenuto stesso della notizia, ma anche a consulenti che possano accompagnare verso una pubblicazione consapevole.

Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa

“Women on Boards”: approvata la direttiva che stabilisce le quote rosa nei Cda delle società quotate europee

Dopo 10 anni di attesa è stato raggiunto l’accordo definitivo tra Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo per trasformare in legge la direttiva “Women on Boards” che mira a introdurre procedure di assunzione trasparenti nelle aziende dell’Unione Europa, così da permettere che almeno il 40% dei posti ai vertici esecutivi siano occupati da donne.

Entro il 30 giugno 2026, nelle società quotate in borsa dell’Unione Europea, almeno il 40% degli incarichi da amministratori non esecutivi o il 30% di tutti incarichi da amministratori dovranno essere ricoperti da donne. Nei casi in cui i candidati presentino pari qualifiche per una posizione la priorità dovrà andare al candidato appartenente al genere meno presente.

La Commissione europea ha presentato per la prima volta la sua proposta nel 2012 e il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione negoziale nel 2013, per poi mantenere una situazione di stallo per quasi 10 anni. Ad oggi, solo il 30,6% dei membri del consiglio di amministrazione delle più grandi società quotate in borsa dell’Ue sono donne, con differenze significative tra gli Stati membri che vanno dal 45,3% in Francia al 8,5% a Cipro.

Vediamo nel dettaglio cosa prevede la direttiva.

 

OGGETTO:

La direttiva mira a raggiungere una rappresentanza più equilibrata di uomini e donne all’interno degli organi amministrativi di società quotate stabilendo misure efficaci per realizzare tale equilibrio.

Le società quotate dovranno raggiungere entro il 30 giugno 2026 uno dei seguenti OBIETTIVI: 40% degli incarichi da amministratori non esecutivi o il 30% di tutti incarichi da amministratori dovranno essere ricoperti dal candidato del sesso sottorappresentato.

 

MEZZI PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI:

Le società quotate dovranno adeguare il processo di selezione dei candidati per la nomina di amministratore. La selezione dovrà seguire i seguenti criteri:

analisi comparativa del titolo di studi di ciascun candidato
modalità di presentazione delle domande non discriminatorie
predisposizione di avvisi di posto vacante
processo di preselezione
indicazioni chiara dei criteri di selezione

Nella scelta di candidati in situazione di pari di idoneità, competenza e professionalità, dovrà essere data la priorità al candidato del sesso sottorappresentato, salvo casi eccezionali.

Gli Stati Membri dovranno adottare misure necessarie affinché, nel caso in cui un candidato non selezionato contesti la violazione degli obblighi da parte della società quotata, quest’ultima abbia l’onere di provare dinanzi alle Autorità competenti che non vi è stata alcuna violazione.

 

OBBLIGHI DI TRASPARENZA:

Le società quotate saranno tenute a fornire annualmente alle Autorità competenti informazioni sulla rappresentanza di genere all’interno degli organi amministrativi, con specifica distinzione fra amministratori esecutivi e non esecutivi e con indicazione delle misure adottate per il raggiungimento degli obiettivi prescritti dalla direttiva. Le società saranno altresì tenute a pubblicare tali informazioni all’interno dei propri siti web.

Gli Stati Membri dovranno pubblicare ed aggiornare periodicamente un elenco delle società quotate che hanno raggiunto uno degli obiettivi.

 

CONTROLLO – SANZIONI:

Gli Stati Membri dovranno designare uno o più organismi competenti per l’analisi, il monitoraggio e la promozione dell’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate.

Sarà inoltre rimesso agli Stati Membri il compito di stabilire, in base alla normativa nazionale, le sanzioni applicabili in caso di violazione degli obblighi posti dalla direttiva che potranno essere di natura pecuniaria o potranno comportare la nullità della nomina del candidato eseguita in violazione delle norme sopra citate.

Le sanzioni devono in ogni caso essere effettive, proporzionate e dissuasive.

 

LEGGE APPLICABILE:

Per l’applicazione della direttiva sarà competente lo Stato Membro in cui la società quotata ha la sede legale e sarà applicabile la legge di tale Stato Membro.

 

ESCLUSIONE:

La direttiva non si applica alle piccole e medie imprese (PMI).

 

REVISIONE:

Entro un anno dall’applicazione della direttiva gli Stati membri dovranno predisporre una relazione sull’attuazione della stessa avendo cura di indicare le misure adottate per il raggiungimento degli obiettivi, sanzioni applicate, progressi fatti verso una rappresentanza più equilibrata fra uomo e donna.

 

ENTRATA IN VIGORE:

La direttiva entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.

Approfondimenti

Revisione dei prezzi negli appalti pubblici: atto dovuto.

È ormai di pubblico dominio la circostanza che l’attuale situazione mondiale che sta comportando un aumento dei prezzi di varie materie prime che indubbiamente vanno ad incidere sul costo di esecuzione di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

È pertanto oggetto di valutazione, sia da parte degli operatori economici, sia da parte delle stazioni appaltanti, se ed in quali termini siano ammissibili richieste di rinegoziazione contrattuale.

In via generale, l’art. 106 del codice dei contratti pubblici prevede l’immodificabilità dei prezzi, salvo espressa previsione, da parte della stazione appaltante, negli atti di gara.

Al fine di ovviare alla problematica relativa all’impossibilità di revisionare i prezzi, il legislatore è più volte intervenuto nel primo semestre 2022 per risolvere la problematica.

In primo luogo: secondo il d.l. 27 gennaio 2022, n. 4 recante “Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico”, fino al 31/12/2023, trova applicazione la revisione dei prezzi prevista all’art. 29 comma 1 lettera a).

Aggiunge, inoltre, l’art. 29, che per i contratti relativi ai lavori,  in  deroga  all’articolo 106, comma 1, lettera a), quarto periodo, del decreto legislativo  50 del 2016,  le  variazioni  di  prezzo  dei  singoli  materiali  da costruzione,  in  aumento  o  in  diminuzione,  sono  valutate  dalla stazione appaltante soltanto se tali variazioni  risultano  superiori al cinque  per  cento  rispetto  al  prezzo,  rilevato  nell’anno  di presentazione dell’offerta, anche tenendo conto  di  quanto  previsto dal decreto del Ministero  delle  infrastrutture  e  della  mobilità sostenibili di cui al comma  2,  secondo  periodo.

Questa misura, tuttavia, non si è rivelata sufficiente a coprire l’aumento dei costi subiti dagli operatori economici per eseguire correttamente i contratti di appalto, soprattutto per quanto concerne gli appalti pubblicati prima dell’intervento del d.l. 4/2022, non rientranti nell’applicazione della norma e aggiudicati a prezzi attualmente insostenibili.

Anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (delibera n. 227 dell’11 maggio 2022) ha rilevato che in ragione degli eventi che hanno contraddistinto l’andamento economico degli ultimi due anni, è ammessa la possibilità per le Stazioni Appaltanti di disporre la sospensione del contratto per il tempo strettamente necessario, nel rispetto delle indicazioni riportate nell’articolo 107 del codice dei contratti pubblici oppure di rinegoziare i termini concordati per l’adempimento.

In questo quadro critico, è intervenuto l’art. 26 del 50/2020, comunemente conosciuto come decreto aiuti.

La norma, come noto, ha la finalità di fronteggiare il rincaro eccezionale non solo dei materiali da costruzione ma anche dei carburanti e dei prodotti energetici riferita a contratti affidati sulla base delle offerte presentate entro il 31.12.2021.

Va evidenziato prima di tutto che la norma riguarda soltanto gli appalti di lavori, e non anche gli affidamenti di servizi e forniture.

L’art. 26 comma 1 del decreto aiuti prevede che gli Stati di Avanzamento dei Lavori (SAL) relativi alle lavorazioni contabilizzate tra il 1 gennaio 2022 e il 31 dicembre 2022 sono adottati, in deroga alle disposizioni contrattuali, applicando i prezziari aggiornati al 31.7.2022 o, in mancanza, applicando un incremento fino al 20% dei prezziari aggiornati al 31 dicembre 2021 e in uso.

La committente è tenuta a riconoscere tali maggiori importi nella misura del 90%.

Per i SAL relativi alle lavorazioni contabilizzate o allibrate tra il 1 gennaio 2022 e 18 maggio 2022 già adottati e per i quali sia già intervenuto un certificato di pagamento, è emesso un certificato di pagamento straordinario che contiene la determinazione dei maggiori oneri spettanti all’appaltatore, determinati applicando i prezziari aggiornati al 31 luglio 2022 o, in mancanza, applicando un incremento fino al 20% dei prezziari aggiornati al 31 dicembre 2021 e in uso. In questo caso, il certificato di pagamento straordinario deve essere adottato entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto aiuti.

In entrambi i casi, i pagamenti sono effettuati al netto di eventuali compensazioni ottenute dall’appaltatore tramite l’attivazione di clausole revisione prezzi contenute nei contratti. Quanto al termine, i pagamenti devono essere effettuati entro 30 giorni dall’adozione di ogni SAL.

È essenziale evidenziare che il comma 2 dispone che i prezziari regionali in uso per il 2022 devono essere aggiornati entro il 31 luglio 2022.

Le regole per la redazione dei prezziari sono contenute nelle Linee Guida del MIMS che, in attuazione dell’art. 29, comma 12 del d.l. 4/2022 (l. 25/2022), dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) essere adottate a breve.

Come previsto anche dall’art. 23 del Codice, qualora le regioni non provvedano nei tempi indicati, spetta alle diramazioni territoriali del MIMS procedere alla redazione dei prezziari, ma entro 15 giorni, e non 30, come previsto dal Codice.

I prezziari aggiornati entro il 31 luglio 2022 cessano di avere efficacia il 31 dicembre 2022 e possono essere utilizzati fino al 31 marzo 2023 unicamente per i progetti che verranno approvati entro tale data.

Nelle more della determinazione dei prezziari, il comma 3 dell’art. 26 prevede che ai fini delle determinazioni del costo dei prodotti, delle attrezzature e delle lavorazioni, le committenti incrementano fino al 20% le risultanze dei prezziari in uso e aggiornati al 2021.

In sostanza, anche prima dell’aggiornamento dei prezzari, la Stazione Appaltante è tenuta a corrispondere un incremento fino al 20%, proprio al fine di evitare che l’attuale condizione economica possa aggravarsi ulteriormente.

Nonostante l’entrata in vigore di tali disposizioni, già di per sè complesse, resta poca chiarezza sul tema della revisione dei prezzi nell’ambito degli appalti di servizi e forniture.

Firenze Legale monitorerà l’emanazione dei provvedimenti normativi, anche in ambito regionale e resta a disposizione in caso di necessità di approfondimenti.

Approfondimenti

Strumenti di retention dei dipendenti strategici: come evitare le dimissioni?

Una delle caratteristiche peculiari del contratto di lavoro è costituita dal fatto che mentre il datore di lavoro per poter recedere dal rapporto deve necessariamente avere una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo o soggettivo, il lavoratore è sempre libero di rassegnare le proprie dimissioni volontarie, interrompendo in qualunque momento il rapporto contrattuale, salvo il rispetto del periodo di preavviso previsto dal CCNL applicato.

Tale dogma consolidatosi a tutela della libertà del lavoratore e finalizzato ad evitare possibili arbitri della parte datoriale, negli ultimi anni è divenuto un tema molto sentito dalle aziende.

Si sta, infatti, assistendo al fenomeno della c.d. “Great Resignation” ovvero ad un sensibile incremento, registrato a livello statistico su base nazionale, delle dimissioni dei dipendenti strategici in numerosi comparti del mercato del lavoro, rendendosi sempre più necessario per le aziende investire in politiche di fidelizzazione delle risorse umane.

Il turnover del personale, soprattutto ove altamente qualificato o rispetto al quale l’azienda ha investito risorse ed energie nella formazione specifica è, infatti, un ostacolo alla produttività aziendale, provocando una dispersione di know how, che spesso va a favorire i diretti competitor.

Per evitare che questo accada è possibile utilizzare degli strumenti giuridici, denominati patti di retention che vanno ad integrare il contratto di lavoro, derogando alle regole generali del rapporto e finalizzati proprio a disincentivare le dimissioni dei dipendenti ed ottenere una maggiore stabilità del personale.

Vediamone alcuni esempi.

PATTO DI STABILITA’

Uno dei primi strumenti che possono essere utilizzati per stabilizzare il rapporto di lavoro consiste nella previsione di un patto di stabilità, ovvero di una clausola contrattuale con la quale viene garantita una durata minima del rapporto, durante il quale il lavoratore non può dimettersi volontariamente dal rapporto di lavoro.

Essa, evidentemente, viene prevista quando, ad esempio la formazione del dipendente rappresenta un investimento notevole per il datore di lavoro oppure quando è necessario tutelare la presenza in azienda di professionalità specializzate, strategiche o di difficile reperimento sul mercato.

Tale clausola costituisce una limitazione della libertà contrattuale e non è disciplinata da alcuna normativa ad hoc, tuttavia, in presenza di determinate condizioni viene pacificamente riconosciuta come legittima dalla giurisprudenza.

Si afferma infatti che il lavoratore subordinato è libero di disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto; la clausola con cui si prevedano limiti all’esercizio di detta facoltà non contrasta con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico e può pertanto essere posto a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio o il pagamento di una penale, in caso di dimissioni anticipate del lavoratore rispetto al periodo di durata minima stabilito.

La medesima clausola, peraltro,  per la giurisprudenza maggioritaria, non rientra neppure in alcuna delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1341 cod. civ., per le quali è richiesta l’approvazione specifica per iscritto.

Trattandosi di un’importante limitazione all’autonomia contrattuale, ai fini della sua validità sono tuttavia richiesti alcuni requisiti:

Forma scritta: trattandosi di una deroga alla disciplina generale del contratto di lavoro deve necessariamente essere provata per scritto;
Determinatezza della durata: non è possibile prevedere patti di stabilità a tempo indeterminato, deve pertanto essere espressamente previsto la durata dell’obbligo;
Onerosità: a fronte del sacrificio richiesto al lavoratore deve necessariamente essere previsto un corrispettivo; la corrispettività, tuttavia, non va valutata atomisticamente, come contropartita dell’assunzione dell’obbligazione, bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, potendo consistere anche nella reciprocità dell’impegno di stabilità ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, quale una maggiorazione della retribuzione o una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore ( n. 14457/2017).

PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PREAVVISO

Un’altra forma di tutela aziendale è rappresentata dal patto di prolungamento del periodo di preavviso, in caso di dimissioni da parte del lavoratore.

Diversamente dal precedente in questo caso la deroga alla disciplina generale incide sul momento patologico del rapporto, ovvero dopo che il lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni, andando a prolungare il termine di preavviso previsto dal CCNL applicato.

Tale clausola ha comunque una buona efficacia deterrente, in quanto proporsi ad un’azienda per una nuova occupazione indicando che la propria disponibilità è differita allo scadere di un tempo di preavviso prolungato, può non essere molto accattivante, non avendo, spesso, le aziende la possibilità o comunque l’interesse verso risorse non immediatamente disponibili.

L’efficacia deterrente può essere, inoltre, ulteriormente rinforzata mediante la previsione di una penale a carico del lavoratore, in caso di inadempimento.

Anche tale accordo per essere valido deve essere scritto ed a titolo oneroso e il pagamento non deve essere simbolico, ma adeguato al sacrificio imposto al lavoratore.

PATTO DI NON CONCORRENZA

Il patto di non concorrenza, ovvero il patto con il quale il lavoratore  si impegna a non svolgere attività lavorativa in favore di imprese concorrenti dopo la cessazione del rapporto di lavoro, assolve principalmente una funzione di protezione,  ovvero  evitare che il dipendente, mediante il know how acquisito alle dipendenze dell’azienda possa svolgere atti di concorrenza in via diretta o favorendo un diretto competitor.

Tuttavia, come il precedente, anche la previsione di un patto di non concorrenza nei confronti di dipendenti maggiormente strategici e qualificati può avere un importante forza deterrente delle dimissioni, impedendo ai lavoratori sottoposti a tale impegno di proporsi o comunque di accettare posizioni lavorative relative al medesimo settore di provenienza, che costituisce notoriamente, il più semplice, oltre che pericoloso per le aziende, rischio di attrazione e sottrazione delle risorse.

I requisiti di validità del patto di non concorrenza, sono disciplinati dall’art. 2125 c.c. e sono molto stringenti:

Forma scritta: solitamente viene previsto unitamente alla lettera di assunzione, ma può essere previsto anche successivamente all’assunzione ed in via autonoma;
Oggetto determinato: devono essere determinate la tipologia delle attività/mansioni del dipendente, nonché delle aziende rientranti nell’oggetto della limitazione;
Durata: non superiore a 3 anni per i dipendenti e 5 anni per i dirigenti
Limitazione territoriale: indicazione delle aree geografiche di operatività del patto
Corrispettivo: il corrispettivo deve necessariamente essere previsto ed in misura congruo  in relazione al sacrificio richiesto a quest’ultimo. La somma dovuta lavoratore può essere stabilita come quota fissa o come percentuale della retribuzione, purchè l’importo corrisposto al lavoratore sia determinato o almeno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore).

PIANI di INCENTIVAZIONE E FRINGE BENEFIT

In ultimo, ma non certo per ordine di importanza, per garantire una buona fidelizzazione del personale è utile, se non indispensabile, garantire la soddisfazione del lavoratore durante il corso del rapporto lavorativo.

I piani di incentivazione legati a riconoscimenti di premi di risultato da erogarsi in retribuzione e/o mediante benefit in natura sono sicuramente  strumenti utile a perseguire la finalità di retention, avendo un forte impatto sulla motivazione dei dipendenti.

La previsione di un sistema remunerativo variabile, in parte connesso ai risultati raggiunti, deve essere tuttavia, caratterizzato da un’attenta regolamentazione, con fissazione di obiettivi ben definiti per scritto e condivisi tra le parti, misurabili oggettivamente e raggiungibili secondo un criterio di normale prevedibilità.

Altre modalità per riconoscere la qualità del lavoro svolto, sono l’attribuzione di benefit mediante piani di welfare aziendale. Questi rappresentano incentivi non monetari capaci di rispondere ai bisogni dei dipendenti in ambito lavorativo (auto aziendale, computer portatile, smartphone aziendali ecc.) e privato (convenzioni sanitarie, asili, palestre ecc.).

Si tratta di modalità utilizzate proprie per valorizzare l’operato dei singoli in azienda con interventi concreti e garantire una maggiore fidelizzazione appartenenza all’azienda.

 

Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

NFT, smart contracts e aspetti legali

Gli NFT (non fungible token) rappresentano un tipo di token crittografici, emessi attraverso  vari protocolli. Ad oggi, il più conosciuto è ERC-721 sulla blockchain di Ethereum. Questi “gettoni” -non essendo fungibili- non sono intercambiabili e diversamente dalle criptovalute, come i bitcoin- rappresentano un’unicità.  Giuridicamente sono dunque assimilabili al concetto di cose infungibili e  inquadrabili come beni che possono formare oggetto di diritti, introducendo così il concetto di bene infungibile nel campo del digitale.

In sostanza, ciò che caratterizza gli NFT è l’insostituibilità, l’unicità e l’indivisibilità.

Strettamente collegato agli NFT è il concetto di smart contract, da sintetizzare con un breve richiamo alla definizione di cui la Legge n. 12/2019, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 12.02.2019, Legge Semplificazione, all’articolo 8 ter, comma 3, punto 2 in cui si definisce “smart contract” un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse”. Pertanto, già un’operazione di “trasferimento” su blockchain che non ha oggetto NFT consente di ottenere effetti giuridici.

L’utilizzo degli smart contract dedicati agli NFT è più complesso, proprio in ragione dell’infungibilità del bene e dunque, allo stesso tempo si presta e richiede, forme evolute di contrattualizzazione su blockchain che partono da un contratto NFT per la cessione di un bene “unico” e che deve rimanere tale. A questo NFT iniziale si aggiungono altri contratti secondo il diverso standard,  come per esempio  per la gestione di  sub-licenze di un’opera intellettuale inizialmente ceduta via NFT.

Gli usi dei token non fungibili stanno aumentando e coinvolgono oltre al settore della proprietà intellettuale, nel quale stanno prendendo sempre più campo, anche il settore della verifica dell’identità, l’ambito del supply chain tracking, le procedure kyc etc.

L’utilizzo degli NFT porta alla luce molteplici questioni legali. Tra gli aspetti giuridici più controversi, sicuramente quello che riguarda tutti i settori in cui sono impiegati, è la tutela del consumatore in quanto non può prescindere da una informazione di base relativa al funzionamento di blockchain e token. La complessità dell’argomento rende difficile spiegarne il funzionamento nei consueti termini e condizioni. Inoltre,  agli NFT non è applicabile il diritto principale della disciplina del consumatore, previsto all’articolo 52 del Codice del Consumo, ossia il diritto di recesso. Una volta acquistato un bene digitale su una piattaforma NFT, non c’è modo di risolvere il contratto e restituire il bene con conseguente ristoro delle somme spese.

Con particolare attenzione al settore della proprietà intellettuale, essi possono rappresentare un’opera d’arte ed in tale ambito è diffusa la prassi di impostare la vendita dei token come licenze così che gli ideatori possano sfruttarne il diritto economico, attraverso una gestione innovativa, verificabile ed automatizzata dei diritti patrimoniali legati alla creazione, diffusione e gestione di opere protette dal diritto d’autore. Dopo la creazione dell’opera e dell’NFT c’è pertanto l’esigenza di definire e dettagliare i rapporti giuridici sottesi in particolare :

Copyright: è assolutamente escluso fare un uso commerciale dell’NFT, così come cedere l’accesso all’opera e riprodurla. il copyright sono in capo all’artista, mentre gli acquirenti possono solo  vendere ed utilizzare l’articolo acquistato.

Royalty: L’ammontare è definito dall’artista stesso e si tratta di percentuali determinate liberamente senza alcuna imposizione legata ai limiti definiti dalle singole legislazioni.

Fee aggiuntive: esistono delle transaction fees che vanno pagate per il costo di produzione, oltre ai costi legati al corrispettivo dell’energia bruciata ed alla conseguente produzione di CO2.

Fiscalità: è previsto il rimedio dell’oscuramento del sito qualora si accerti il mancato pagamento delle imposte e, nel caso in cui l’artista o il collezionista debba affrontare questioni per il mancato pagamento di imposte e venga condannato per evasione fiscale, viene oscurato il sito dello stesso.

Tali aspetti potranno essere definiti autonomamente al di fuori della catena, ma come visto in premessa, si sta diffondendo la possibilità di regolamentarli attraverso gli smart contracts, getendo tramite tali strumenti le licenze successive e dunque lo sfruttamento economico dell’opera.

 

Approfondimenti

L’evoluzione del diritto penale e il Revenge Porn

Sempre più spesso, negli ultimi anni, si sente utilizzare l’espressione revenge porn, espressione della lingua inglese che indica la condivisione pubblica – per fini di vendetta – di immagini o video intimi tramite internet, senza il consenso del protagonista del video o dell’immagine stessa.

Andando un po’ più nel dettaglio, il revenge porn in senso stretto consiste nella creazione consensuale di immagini intime o sessuali all’interno di un contesto di coppia e la non consensuale pubblicazione delle stesse da parte di uno dei membri con l’intento di vendicarsi della fine della relazione. Tale espressione è utilizzata, tuttavia, nel linguaggio comune, in senso più ampio anche per indicare ogni forma di diffusione non consensuale di immagini pornografiche o comunque aventi un contenuto sessuale, a prescindere quindi dalla pregressa esistenza di una relazione sentimentale o dalla finalità ritorsiva di colui che pubblica le immagini.

Purtroppo, il revenge porn è un fenomeno oggi molto diffuso, soprattutto tra i giovani. L’attuale pandemia, inoltre, ha ulteriormente peggiorato la situazione, portando ad un incremento di tutti i reati online come cyberbullismo e revenge porn appunto, tipologie di reati impensabili venti anni fa, astrattamente ipotizzabili dieci anni fa, ma che negli ultimi anni hanno assunto una portata rilevante e preoccupante. Una ricerca dell’ottobre 2020 del Dipartimento di Pubblica Sicurezza avente per oggetto lo studio della diffusione dei reati di revenge porn nell’anno 2019- 2020 ha rivelato, ad esempio, che la Lombardia ha registrato ben 141 reati perfezionati, seguita dalla Sicilia con 82.

L’emersione di nuovi comportamenti e di nuove esigenze di tutela ha portato il Legislatore ad introdurre, con la Legge n. 69/2019, il reato di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” all’art. 612 ter c.p.

L’intervento legislativo è giunto subito dopo il caso di Tiziana Cantone, fortemente sentito anche dall’opinione pubblica. La donna, dopo la diffusione in internet contro la sua volontà di alcuni filmati hard di cui era protagonista, era stata oggetto di pesanti e continue offese e aggressioni al suo onore e alla sua reputazione che l’avevano spinta a togliersi la vita il 13 settembre 2016. Il caso ha messo in luce – forse per la prima volta in Italia – la straordinaria pericolosità del fenomeno, reso incontrollabile dagli strumenti telematici che, non solo rendono pressoché impossibile controllare e fermare la diffusione delle immagini e dei relativi commenti, ma consentono anche agli aggressori di colpire in anonimato. Pochi giorni dopo la morte di Tiziana Cantone è stato presentato il primo progetto di legge per l’introduzione di un reato specifico. Un’altra vicenda, che ha coinvolto la deputata Giulia Sarti, ha ulteriormente accelerato l’iter di approvazione, che si è concluso con la promulgazione della Legge 69/2019.

Il delitto di nuova introduzione punisce, da un lato, chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda – senza il consenso della persona rappresentata – immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che erano destinati a restare privati e, dall’altro lato, coloro che una volta ricevuto o acquisito il materiale lo inviino, consegnino, cedano, pubblichino o diffondano senza il consenso della persona rappresentata, con il fine di recare alla vittima un nocumento.

La fattispecie prevede un aumento di pena se i fatti sono commessi:

dal coniuge, anche separato o divorziato;
da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa;
con strumenti informatici o telematici. In quest’ultimo caso, infatti, il ricorso a tali strumenti amplifica la diffusione immediata ad un numero sempre più crescente di destinatari, incrementando l’offesa subita dalla vittima;
a danno di una persona che sia in condizione di inferiorità fisica o psichica o verso una donna in stato di gravidanza: in questi casi è chiaro che emerga una particolare vulnerabilità delle vittime in questione.

Il reato in esame è procedibile a querela della persona offesa, ciò con l’evidente intento di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, cagionata dal rapporto con le istituzioni ed implicante, ad esempio, la necessità di ripetere più volte la narrazione di quanto subìto e di essere soggetti a valutazioni sulla propria credibilità ed attendibilità.

In ogni caso, il consiglio per la redazione dell’atto di denuncia querela, è quello di rivolgersi sempre a professionisti in grado di mettere in luce il reale disvalore della fattispecie in tutte le sue sfaccettature e in grado di individuare consulenti informatici forensi che possano fornire il necessario supporto alla narrazione dei fatti.

Approfondimenti Non categorizzato

FONDO IMPRESA DONNA: contributi e agevolazioni a sostegno dell’impresa femminile

La legge di bilancio 2021 (L. n. 178/2020, art. 1, co. 97-106) ha istituito, presso il Ministero dello Sviluppo economico, un Fondo a sostegno dell’impresa femminile con l’obiettivo di incentivare la partecipazione delle donne al mondo delle imprese, supportando le loro competenze e creatività per l’avvio di nuove attività imprenditoriali e la realizzazione di progetti innovativi, attraverso contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati.

Il Fondo finanzierà programmi d’investimento da realizzare entro due anni e con un tetto di spesa ammissibile fissato a 250.000 euro per nuove imprese e fino a 400.000 euro imprese già esistenti.

Gli interventi di supporto del Fondo Impresa Donna possono consistere in:

contributi a fondo perduto per avviare imprese femminili (con particolare attenzione alle imprese individuali e alle attività libero professionali in generale e con specifica attenzione a quelle avviate da donne disoccupate di qualsiasi età);finanziamenti a tasso zero o comunque agevolati (è ammessa anche la combinazione di contributi a fondo perduto e finanziamenti);
incentivi per rafforzare le imprese femminili, costituite da almeno 36 mesi, mediante erogazione di contributi a fondo perduto del fabbisogno di circolante nella misura massima dell’80% della media del circolante degli ultimi 3 esercizi;
percorsi di assistenza tecnico-gestionale, per attività di marketing e di comunicazione durante tutto il periodo di realizzazione degli investimenti o di compimento del programma di spesa, anche attraverso un sistema di voucher;
investimenti nel capitale, anche tramite la sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi, a beneficio esclusivo delle imprese a guida femminile tra start-up innovative e PMI innovative, nei settori individuati in coerenza con gli indirizzi strategici nazionali.

Sono ammesse alle richieste le attività nei settori dell’industria, dell’artigianato, della trasformazione dei prodotti agricoli, dei servizi, del commercio e del turismo.

Le agevolazioni del Fondo Impresa Donna possono essere utilizzate per:

nuovi impianti, macchinari e attrezzature;
immobilizzazioni immateriali;
servizi cloud per la gestione aziendale;
personale dipendente assunto a tempo indeterminato o determinato dopo la data di presentazione della domanda e impiegato nell’iniziativa agevolata.

Il Fondo sostiene, inoltre, azioni per la diffusione della cultura e la formazione imprenditoriale femminile, attuate dal soggetto gestore, sulla base di un piano di attività condiviso con il Ministero, attraverso iniziative per la promozione del valore dell’imprenditoria femminile nelle scuole e nelle università, per la diffusione di cultura imprenditoriale tra le donne, di orientamento e formazione verso percorsi di studio nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche, di sensibilizzazione verso professioni tipiche dell’economia digitale e attraverso azioni di comunicazione per diffondere la cultura femminile d’impresa e promuovere i programmi finanziati dal Fondo stesso.

Il Fondo Impresa Donna è destinato alle imprese femminili nascenti o già esistenti, in particolare si rivolge alle seguenti categorie di beneficiari:

cooperative e società di persone con ameno il 60% di donne socie (è previsto l’obbligo che i legali rappresentanti o amministratori non siano mai stati condannati con sentenza definitiva per reati che costituiscono motivo di esclusione dagli appalti);
società di capitale con quote e componenti del CDA per almeno due terzi di donne, sempre con il vincolo dell’assenza di condanne definitive per i reati che comportano esclusione degli appalti pubblici;
imprese individuali la cui titolare è una donna e risulti non condannata in via definitiva per reati che costituiscono motivo di esclusione dagli appalti;
lavoratrici autonome che presentano l’apertura della partita IVA entro 60 giorni dalla comunicazione positiva della valutazione della domanda;
persone fisiche che intendono avviare l’attività purché, entro 60 giorni dalla comunicazione positiva della valutazione della domanda, trasmettano documentazione sull’avvenuta costituzione.

Nel caso di una società, cooperativa, società di capitale o impresa individuale costituita da meno di un anno, la sede legale o operativa dell’impresa deve essere collocata in Italia.

Per garantire il buon funzionamento del fondo, il Ministero si avvarrà anche del Comitato impresa donna istituito in Bilancio e da disciplinare con un apposito Decreto.

Le domande di agevolazione potranno essere compilate e depositate esclusivamente in via telematica, utilizzando la procedura informatica che sarà messa a disposizione in un’apposita sezione del sito internet del Soggetto gestore www.invitalia.it.

La domanda dovrà essere accompagnata da un progetto imprenditoriale contenente:

dati dell’impresa femminile richiedente;
descrizione dell’attività;
analisi del mercato e relative strategie;
aspetti tecnico-produttivi ed organizzativi;
aspetti economico-finanziari.

Per le iniziative relative alle imprese già esistenti, la domanda dovrà essere completata con il bilancio relativo ai tre esercizi antecedenti la presentazione della domanda di agevolazione.

Nel caso di persone fisiche la documentazione atta a comprovare la costituzione dell’impresa o l’apertura della partita IVA dovrà essere trasmessa elettronicamente tramite la procedura informatica, entro 60 giorni dalla data di comunicazione di esito positivo della valutazione.

 

L’apertura dei termini, le modalità per la presentazione delle domande di agevolazione saranno definite dal Ministero dello sviluppo economico con successivo provvedimento, con il quale saranno, altresì, fornite le necessarie specificazioni per la corretta attuazione degli interventi.

Approfondimenti

Bonus edilizi e Decreto Antifrodi: non si applica l’asseverazione per le fatture precedenti al 12 novembre 2021.

Come ormai noto, nel 2020 il Governo ha approvato varie misure di agevolazione, in materia edilizia, per incrementare interventi di ristrutturazioni edilizie, riqualificazioni energetiche, misure antisismiche, installazione impianti fotovoltaici ecc.
Sennonché, negli ultimi mesi l’Agenzia delle Entrate ha segnalato a un anno dall’entrata in vigore dei bonus edilizi, sono state già individuate truffe per 800 milioni di euro su 19,3 miliardi di scambi.
Di qui, l’esigenza di emanare disposizioni normative che ovviassero alla problematica appena rappresentata.
Il 12 novembre 2021 è dunque entrato in vigore il cd. Decreto Legge Antifrodi.
Le novità salienti del Decreto sono essenzialmente due:
– Estensione del visto di conformità anche per la fruizione diretta del superbonus 110 per cento. Tale visto era già previsto per le opzioni di fruizione indiretta dell’agevolazione previste dall’articolo 121 del Decreto Rilancio, ovvero la cessione del credito e lo sconto in fattura. L’estensione dell’obbligo di tale visto si applica anche agli altri bonus edilizi per interventi che rientrano in altre agevolazioni, nei casi in cui si sceglie la cessione del credito o lo sconto in fattura.
– Introduzione dell’asseverazione della congruità delle spese. In sostanza, deve essere attestato che le spese sostenute sono adeguate alla tipologia degli interventi realizzati e ai risultati raggiunti. Il Decreto Antifrode stabilisce che l’asseverazione venga rilasciata non solo sulla base del DM Requisiti Tecnici e massimali di costo, ma anche di un nuovo decreto del Mite, che definirà i valori massimi per alcune categorie di beni non contemplate nel DM Requisiti Tecnici e massimali di costo. Nell’attesa che il decreto del Mite venga emanato, per questi beni l’unico riferimento è ravvisabile nei prezzari regionali.
Il punto critico del Decreto Antifrodi consiste nel fatto che lo stesso non evidenzia alcun ambito applicativo, sotto un profilo temporale.
Pertanto, secondo primi ed autorevoli orientamenti, l’obbligo dei nuovi adempimenti riguarderebbe anche i lavori già avviati e in corso di esecuzione e ultimazione. Con la conseguenza, non banale sotto un profilo pratico, che anche i lavori già iniziati dovranno essere oggetto di revisione.
Si pensi, in particolare, alle fatture, già emesse e pagate, che non sono espressamente riferibili a prezziari regionali e che necessiterebbero, dunque, di una complessa ricostruzione a posteriori da parte del professionista.
Sono tuttavia intervenuti, il 22 novembre 2021, i chiarimenti interpretativi dell’Agenzia delle Entrate.
L’Agenzia chiarisce in primo luogo che l’obbligo di apposizione del visto di conformità e dell’asseverazione, introdotto dal Dl n. 157/2021 non si applica ai contribuenti che prima del 12 novembre 2021 (data di pubblicazione in gazzetta ufficiale del Dl n. 157/2021) hanno ricevuto le fatture da parte di un fornitore, assolto i relativi pagamenti ed esercitato l’opzione per la cessione o per lo sconto in fattura, anche se la relativa comunicazione non è stata ancora inviata. Con riferimento, invece, ai tecnici, viene chiarito che i professionisti abilitati alla verifica della congruità delle spese per gli interventi ammessi al Superbonus possono rilasciare per lo stesso tipo di intervento anche la nuova attestazione di congruità delle spese sostenute prevista dall’articolo 1 del Dl n. 157/2021.
In buona sostanza, l’obbligo del visto di conformità e dell’asseverazione ai fini dell’opzione per lo sconto in fattura o la cessione del credito si applica, in via di principio, alle comunicazioni trasmesse in via telematica all’Agenzia delle entrate a decorrere dal 12 novembre 2021.
In ragione della tutela dell’affidamento dei contribuenti in buona fede che abbiano ricevuto le fatture da parte di un fornitore, assolto i relativi pagamenti a loro carico ed esercitato l’opzione per la cessione, attraverso la stipula di accordi tra cedente e cessionario, o per lo sconto in fattura, mediante la relativa annotazione, anteriormente alla data di entrata in vigore del Decreto Legge n. 157 del 2021, anche se non abbiano ancora provveduto all’invio della comunicazione telematica all’Agenzia delle entrate si ritiene che in tali ipotesi non sussista il predetto obbligo di apposizione del visto di conformità alla comunicazione dell’opzione all’Agenzia delle entrate e dell’asseverazione. Al riguardo, si precisa che, per consentire la trasmissione di tali comunicazioni, le relative procedure telematiche dell’Agenzia delle entrate saranno aggiornate entro il prossimo 26 novembre.
Va da sé che le comunicazioni delle opzioni inviate entro l’11 novembre 2021, relative alle detrazioni diverse dal Superbonus, per le quali l’Agenzia delle Entrate ha rilasciato regolare ricevuta di accoglimento, non sono soggette alla nuova disciplina di cui al comma 1-ter dell’articolo 121 del Decreto Legge n. 34/2020 e, dunque, non sono richiesti l’apposizione del visto di conformità e l’asseverazione della congruità delle spese. I relativi crediti possono essere accettati, ed eventualmente ulteriormente ceduti, senza richiedere il visto di conformità e l’asseverazione della congruità delle spese, anche dopo l’11 novembre 2021, fatta salva la procedura di controllo preventivo e sospensione di cui all’articolo 122-bis del Decreto Legge n. 34/2020, introdotto dal Decreto Legge n. 157 del 2021.
L’Agenzia delle Entrate chiarisce anche che nelle more dell’adozione del Decreto del Ministero della transizione ecologica di cui al comma 13-bis dell’articolo 119 del Decreto Legge n. 34 del 2020, relativo all’individuazione dei valori massimi per talune categorie di beni ai fini dell’asseverazione della congruità delle spese, è possibile fare riferimento ai prezzari individuati dal Decreto del Ministero dello sviluppo economico del 6 agosto 2020 (“Requisiti tecnici per l’accesso alle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici – cd. Ecobonus”), con i relativi allegati, oltre che ai prezzi riportati nei prezzari predisposti dalle regioni e dalle province autonome, ai listini ufficiali o ai listini delle locali camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ovvero, in difetto, ai prezzi correnti di mercato in base al luogo di effettuazione degli interventi.

Approfondimenti

Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno differenziale

L’indennizzo da parte dell’INAIL. 

Gli infortuni occorsi ai dipendenti pubblici o privati durante lo svolgimento della prestazione lavorativa sono soggetti alla copertura dell’I.N.A.I.L. il quale provvede a corrispondere al lavoratore le prestazioni previste dalla legge.

Si tratta in particolare dell’indennità per il periodo di inabilità assoluta temporanea parametrata sulla retribuzione percepita dal lavoratore e, in caso di postumi di un’invalidità permanente superiore al 6 %, dell’ indennizzo in forma capitale o (se il danno biologico superiore al 16 %) in forma di rendita vitalizia.

La misura dell’indennizzo erogata dall’Istituto viene calcolata sulla base delle tabelle INAIL e non comporta l’integrale risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore.

Il danno differenziale.

Il risarcimento integrale del danno, definito danno differenziale proprio in quanto corrisponde alla differenza tra la somma dovuta al dipendente per il pregiudizio subito e quanto già erogato dall’INAIL a titolo di indennizzo, spetta al lavoratore soltanto nel caso in cui l’infortunio sia avvenuto per responsabilità del datore di lavoro e sarà pertanto da questi dovuto.

L’obbligo di prevenzione dei rischi da parte del datore di lavoro.

Il datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha, infatti l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutela dell’integrità psico fisica dei propri dipendenti previste da norme di legge (tra cui le più importanti quelle contenute nel T.U. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro) o suggerite dalle migliori conoscenze sperimentale o tecniche del momento.

L’inosservanza di tali obblighi, ove sia stata la causa dell’infortunio, può dare origine alla responsabilità dell’imprenditore e pertanto può essere fatta valere dal lavoratore con un’azione risarcitoria.

La natura e l’estensione della responsabilità dell’imprenditore.

Va precisato che la responsabilità del datore di lavoro non è di tipo oggettivo, ovvero automaticamente sussistente ogni volta che il dipendente abbia riportato lesioni in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa, essendo sempre necessario individuare un profilo di colpa del datore di lavoro, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.

È però, altrettanto vero che la giurisprudenza ha notevolmente esteso le maglie della responsabilità datoriale. Si ritiene, infatti, che le norme in materia di prevenzione degli infortuni in capo al datore di lavoro, essendo finalizzate ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, siano dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, insiti nella tipologia di attività svolta, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, vigendo in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza e controllo.

Il datore di lavoro è, dunque, ritenuto responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che il dipendente osservi correttamente tali misure, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore.

Il comportamento abnorme del lavoratore.

L’imprenditore viene, invece, esonerato dalla responsabilità nelle ipotesi in cui il lavoratore abbia posto in essere un comportamento “abnorme”, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio (detto rischio elettivo) estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.

Si deve trattare, dunque, di una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali e non prevedibili dal datore di lavoro, al di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione lavorativa ed attività assicurata.

Un caso concreto.

Per comprendere meglio il concetto di comportamento abnorme, si segnala una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 3282/2020) che ha escluso la responsabilità datoriale per l’infortunio del lavoratore. Nel caso concreto era stato accertato in giudizio che il lavoratore, seppure adeguatamente dotato dei dispositivi antinfortunio e informato sul corretto uso degli stessi, oltre che più volte richiamato al rispetto delle regole antinfortunistiche, aveva omesso volontariamente e imprudentemente di agganciare la cintura di sicurezza anticaduta al cestello.

Tale comportamento aveva quindi assunto il carattere dell’assoluta imprevedibilità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, da porsi quale causa esclusiva dell’evento e tale da escludere la responsabilità del datore di lavoro.

Concludendo.

In definitiva, quindi, possiamo affermare che il datore di lavoro è ritenuto responsabile dell’infortunio del lavoratore e tenuto pertanto a risarcire il danno differenziale quando abbia omesso di adottare tutte le misure protettive necessarie ad evitare l’evento dannoso, comprese quelle esigibili in relazione alla possibile negligenza o imprudenza del lavoratore. È, inoltre, responsabile quando abbia omesso di adeguatamente controllare e vigilare affinché le misure siano rispettate da parte del lavoratore.

Non è invece ritenuto responsabile quando l’infortunio sia determinato da un comportamento del lavoratore abnorme, imprevedibile ed esorbitante rispetto alle direttive impartite e al normale procedimento di lavoro.

Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

Consignment stock e vendite on-line

I contratti call-off stock e consignment stock sono molto diffusi nella prassi commerciale in considerazione dei vantaggi che comportano per entrambe le parti contrattuali. Da un lato il cedente riduce sensibilmente i costi di distribuzione e dall’altro il cessionario evita il problema dell’invenduto. Un’ampia diffusione di tale contratto, si è avuta nelle vendite on line, anche per i marketplace, anche quando ad essere coinvolti sono operatori che si trovano in diversi Paesi.

Nel contratto di call-off stock un fornitore può costituire uno stock di prodotti presso la sede del proprio cliente, il quale utilizzerà quei beni in funzione della propria necessità. La proprietà dei beni è trasferita al momento del prelievo del bene dallo stock, con la conseguenza che la vendita è conclusa al momento del prelievo. Nel consignment stock il fornitore consegna presso i locali del cliente i beni oggetto del contratto ma su accordo delle parti, la proprietà è trasferita al cliente al momento della vendita dei beni ad un terzo acquirente.

La similitudine è con il contratto di conto deposito, che prevede il differimento del trasferimento della proprietà al momento del prelievo da parte del cliente o di un terzo, fino a quel momento i beni sono di proprietà del fornitore. In considerazione dell’atipicità dell’istituto, la redazione di un contratto ben strutturato è la migliore tutela per le parti coinvolte, anche in considerazione della legge applicabile, che spesso è quella del depositario e dunque è sicuramente più funzionale per le parti negoziare delle condizioni contrattuali chiare e dettagliate. Particolare attenzione deve essere prestata ai seguenti aspetti:

Disciplina della giacenza di magazzino: ai fini fiscali è necessario stabilire espressamente la durata della giacenza dei prodotti nei magazzini e conseguentemente prevedere la destinazione dei prodotti all’esito del periodo o attraverso un meccanismo di acquisto automatico al termine del periodo di giacenza o attraverso contrattualizzazione di un termine di restituzione dei prodotti prima della scadenza.
Modalità di consegna: previsione clausole di ispezione alla consegna presso il luogo di giacenza dello stock anche attraverso la procedimentalizzazione della procedura di accettazione della merce.
Stoccaggio e assicurazioni: inserimento di definite e chiare procedure per la conservazione della merce con diritto di verifica da parte del fornitore. Si consiglia anche la stipula di apposite coperture assicurative della merce anche integrative rispetto a quanto offerto dal depositario, se ritenute non sufficienti anche in relazione alle normative dei diversi Paesi.
Verifica degli stock: previsione di modalità di verifica della corrispondenza fra il dato informatico e il dato reale in modo da controllare la corretta gestione del magazzino da parte del cliente, con la possibilità di procedere a inventari fisici periodici e/o controlli a campione.
Trasferimento del rischio: dal momento che il possesso si trasferisce immediatamente alla consegna è utile sottolineare il momento del passaggio del rischio, prevedendo che si trasferisce sul depositario a far data dalla consegna, quantomeno nelle ipotesi di danneggiamento e sparizione merce.

La peculiarità di tale istituto ed il coinvolgimento nel medesimo contratto di operatori distribuiti in diversi Paesi porta con sé alcune conseguenze sotto il profilo fiscale che sono state disciplinate con diversi interventi normativi.

L’Agenzia delle Entrate era già intervenuta sul tema con la Risoluzione n. 44/E/2000 ha stabilito che affinché si realizzi il contratto di consignment stock in ambito comunitario, occorre che i beni siano consegnati direttamente al cliente presso un proprio deposito fiscale. Oppure presso un deposito anche non fiscale presso il quale, tuttavia, i beni rientrino nella piena disponibilità del cliente comunitario.

La Direttiva UE/2018/1910 del 4 dicembre 2018 è stata emanata con lo scopo di armonizzare il regime fiscale applicabile alle operazioni di call-off stock e di consignment stock fino a quel momento disciplinate in modo autonomo e disomogeneo di ciascun Stato membro. La direttiva introduce un nuovo art 17-bis alla Direttiva Iva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 che recita testualmente: “Non è assimilato a una cessione di beni effettuata a titolo oneroso il trasferimento, d a parte di un soggetto passivo, di un bene della sua impresa a destinazione di una altro stato membro in regime di call off stock”.

Pertanto l’invio della merce in ambito comunitario, pur non perdendo la natura di operazione intracomunitaria, sconta gli effetti fiscali soltanto in un momento successivo coincidente con le seguenti ipotesi:

atto di rivendita o di consumo da parte del depositario/cessionario;
scadere dei termini stabiliti contrattualmente;
comunque entro un anno (12 mesi) dalla spedizione.

 

In conclusione, per rendere applicabile la predetta semplificazione sono necessarie contemporaneamente le seguenti condizioni:

i beni devono spediti o trasportati da un soggetto passivo IVA in uno Stato membro verso un altro Stato membro.
il soggetto passivo che spedisce i beni non ha stabilito, nello Stato membro in cui i beni sono spediti, la sede della propria attività economica, né una stabile organizzazione;
Identificazione dell’acquirente ai fini IVA nello Stato membro in cui i beni sono spediti;
registrazione del trasferimento in un apposito registro e negli elenchi riepilogativi delle cessioni intra-Ue.

In conclusione, è consigliabile al momento della sottoscrizione del contratto, anche qualora lo stesso provenga da operatori specializzati nel settore, esaminare nel dettaglio la legge applicabile soprattutto con riferimento ai profili maggiormente critici sopra evidenziati e negoziare attentamente le singole clausole senza operare rinvii generici, ciò al fine di contenere maggiormente i rischi.