Approfondimenti

Obbligo di verifica del c.d. green pass: modalità e limiti.

Sempre più spesso sentiamo parlare di Green Pass.
Ad oggi, il c.d. certificato verde non serve più solo per partecipare a feste di nozze o per le visite nelle case di riposo per anziani, ma anche per l’accesso a eventi sportivi, fiere, congressi, musei, parchi tematici e di divertimento, teatri, cinema, concerti, concorsi pubblici, istituti scolastici. E l’ingresso in bar, ristoranti, piscine, palestre e centri benessere, limitatamente alle attività al chiuso.
Le multe per i trasgressori sono salate. Vanno da 400 a 1000 euro sia a carico dell’esercente sia del cliente. E in caso di violazione reiterata per tre volte in tre giorni diversi, «l’esercizio potrebbe essere chiuso da 1 a 10 giorni».
Considerato quindi il crescente utilizzo che verosimilmente verrà fatto di questo strumento è necessario fare un po’ di chiarezza sul punto al fine di comprendere chi siano i soggetti tenuti alla verifica e quali modalità devono essere seguite per operare correttamente.
L’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali ha ricevuto negli ultimi tempi diversi quesiti, da parte di soggetti a vario titolo destinatari dei nuovi obblighi, introdotti dal D.L. n. 105 del 2021, in relazione all’uso delle certificazioni verdi in “zona bianca”. Tali istanze mirano, in particolare, a ottenere una pronuncia del Garante su questi obblighi, sui limiti e sui presupposti del potere di accertamento dell’identità del titolare delle certificazioni verdi, sui contesti nei quali sia richiesto il possesso di tali attestazioni e sulle implicazioni della loro eventuale inosservanza da parte dei rispettivi destinatari. Ciò in quanto un utilizzo non corretto delle certificazioni verdi e/o delle modalità di verifica delle medesime potrebbero comportare un trattamento illecito di dati personali, con tutte le conseguenze e sanzioni che ne derivano.
Innanzitutto, si può rilevare come la disciplina delle certificazioni verdi sia legittima, sotto il profilo della protezione dei dati, nella misura in cui si inscriva nel perimetro delineato dalla normativa vigente e si limiti al trattamento dei soli dati effettivamente indispensabili alla verifica della sussistenza del requisito soggettivo in esame (titolarità della certificazione da vaccino, tampone o guarigione).
Ai sensi dell’art. 13 del DPCM 17 giugno 2021, la verifica delle certificazioni verdi COVID-19 è effettuate mediante lettura del QR Code tramite l’unica app consentita, ovvero quella sviluppata dal Ministero della Salute “VerificaC 19”, che consente solamente di controllare l’autenticità, la validità e l’integrità della certificazione e di conoscere le generalità dell’intestatario (nome, cognome e data di nascita), senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l’emissione.
Non sussiste in capo ai soggetti verificatori alcun obbligo di verifica del documento di identità dell’interessato. Tale possibilità potrà essere fatta valere dal soggetto preposto alla verifica solo ove vi sia una palese incongruenza tra ciò che risulta dalla verifica tramite app “VerificaC 19” e ciò che appare (ad es. nel caso in cui sia palese che la data di nascita riportata sul Green Pass non possa essere quella del soggetto che lo presenta).
Non è invece prevista alcuna possibilità di raccolta e/o archiviazione in qualunque forma delle certificazioni da parte dei soggetti verificatori.
Il trattamento dei dati personali funzionale a tali adempimenti, se condotto conformemente alla disciplina sopra richiamata e nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali (e in primo luogo del principio di minimizzazione) non può, pertanto, comportare l’integrazione degli estremi di alcun illecito, né tantomeno l’irrogazione delle sanzioni paventate nelle note ricevute dal Garante.
Pertanto, le richieste da parte di palestre e centri sportivi ai loro abbonati e associati di trasmissione e consegna, assieme al certificato di sana e robusta costituzione, di copia del Green Pass con evidenziata la relativa data di scadenza rappresentano una violazione della vigente disciplina in materia di protezione dei dati personali giacché il titolare del trattamento – palestra, centro sportivo o qualsiasi altro analogo soggetto – non ha titolo per acquisire la data di scadenza del Green Pass e conservare gli altri dati personali contenuti nel medesimo documento. È evidente e comprensibile che la prassi che si sta andando diffondendo renderebbe più facile la vita ai gestori di palestre e centri sportivi e, forse, anche ad abbonati e associati ma, al tempo stesso, frustra gli obiettivi di bilanciamento tra privacy, tutela della salute e riapertura del Paese, interessi che si è voluto perseguire con l’introduzione del Green Pass e la disciplina relativa alle modalità di verifica.
In conclusione, la disciplina sul Green Pass prevede che lo stesso debba – nei soli luoghi nei quali è necessario ai sensi di quanto previsto dalla legge – essere semplicemente esibito all’ingresso e debba essere letto dagli incaricati esclusivamente attraverso l’apposita app “VerificaC 19” messa a punto dal Governo, app che consente al verificatore di accedere solo a un’informazione binaria: il titolare del documento ha o non ha un Green Pass valido senza alcun riferimento né alla condizione – vaccino, guarigione dal Covid19 o tampone – che ha portato al rilascio del Green Pass, né alla data di scadenza del documento medesimo.

Approfondimenti News

E-COMMERCE E IVA: le novità in vigore dal 1° luglio 2021

Nell’ambito del pacchetto “e-commerce”, in seguito all’approvazione del decreto legislativo n. 83/2021 sono stati recepiti nell’ordinamento italiano gli articoli 2 e 3 della direttiva UE n. 2017/2455 in materia di imposta sul valore aggiunto per le prestazioni di servizi e le vendite a distanza di beni nonché la direttiva UE n. 2019/1995.

Tali disposizioni contengono misure volte a rimodulare la disciplina IVA nell’ambito del commercio elettronico, con lo scopo di facilitare le operazioni transfrontaliere, combattere le frodi e assicurare alle imprese nella Ue condizioni di parità con le imprese di Paesi terzi.

LE PRINCIPALI NOVITA’:

 

Imponibilità IVA nello Stato membro di origine o di destinazione

Ai fini IVA le operazioni di e-commerce indiretto in ambito B2C continuano ad essere territorialmente rilevanti nello Stato membro di destinazione della merce.

Ciò che cambia a decorrere dal 1° luglio 2021 è l’eliminazione delle soglie di protezione (poste di norma a 35.000 euro), che erano state introdotte per evitare che i fornitori dovessero richiedere una posizione IVA in ogni Stato membro UE di destinazione della merce.

Sotto tali soglie (intese come acquisti totali effettuati da persone fisiche di uno Stato membro) l’operazione scontava l’imposta del Paese del fornitore.

Dal 1° luglio 2021, invece, viene previsto quanto segue:

fino alla soglia minima annua di 10.000 euro, l’IVA viene applicata nel Paese del cedente;
al superamento della soglia minima annua di 10.000 euro, da monitorare nel corso di un anno civile, si applicherà l’ordinario criterio impositivo basato sul luogo di destino dei beni, di cui all’articolo 33, lett. a), Direttiva 2006/112/CE.

La soglia è calcolata, per ciascun anno, sommando il valore totale delle vendite a distanza intracomunitarie di beni e delle prestazioni di servizi di telecomunicazione, taleradiodiffusione ed elettronici resi a privati consumatori di altri Stati membri, al netto dell’imposta.

In caso di superamento delle soglie stabilite, il fornitore soggetto passivo IVA, potrà scegliere di applicare il regime del Moss, al fine di evitare l’onere dell’identificazione nei singoli Paesi in cui sono state effettuate le cessioni, nel rispetto delle regole di fatturazione del proprio Stato membro.

 

Marketplace

Le imprese che facilitano le transazioni di e-commerce attraverso piattaforme elettroniche (mercati virtuali) saranno direttamente responsabili dell’applicazione dell’Iva per le seguenti cessioni:

vendite a distanza intracomunitarie di beni e vendite di beni già situati nel territorio dell’Ue, quando effettuate da soggetti passivi stabiliti al di fuori dell’Ue;
vendite a distanza di beni importati da paesi extraUe in spedizioni di valore intrinseco non superiore a 150 euro.

In relazione alle suddette operazioni, si presume infatti che il titolare del mercato virtuale abbia acquistato e venduto i prodotti, su cui dovrà liquidare l’Iva con riferimento al momento in cui è accettato il pagamento del corrispettivo.

 

Nuovo regime per importazione di merci di modico valore (IOSS)

Sempre dal 1° luglio prossimo, viene abolita l’esenzione in ambito Iva per i beni di valore fino a 22 euro importati nell’Ue, per cui tutti i beni commerciali importati nella Ue saranno soggetti ad Iva, indipendentemente dal loro valore.

Allo stesso tempo, viene introdotto un regime speciale di importazione per le vendite a distanza di beni importati di valore non superiore a 150 euro (Import One Stop Shop).

Resteranno in vigore così le seguenti due modalità operative:

Bolletta doganale completa per merci maggiore di 150 euro;
Bolletta doganale semplificata per merci inferiore a 150 euro.

L’Iva sui beni di modico valore potrà essere assolta nel modo seguente:

pagamento come parte del prezzo di acquisto al fornitore/marketplace, mediante lo sportello unico di importazione (IOSS)
pagamento all’importazione nell’UE se il fornitore/marketplace non utilizza lo sportello IOSS.

Aderendo all’IOSS, ai fornitori e ai marketplace è consentito di riscuotere l’Iva sulle vendite di merci di modico valore, spedite o trasportate da un paese extracomunitario a clienti nella Unione Europea, nel seguente modo:

l’importazione è esente da Iva;
l’imposta viene riscossa presso l’acquirente come parte del prezzo e dichiarata e versata tramite lo sportello unico per le importazioni (art. 74-sexies1 del DPR 633/72).

 

Nuovi regimi OSS e IOSS

Altra novità riguarda l’entrata in vigore a partire dal 1° luglio 2021 dei regimi OSS (One Stop Shop) e IOSS (Import One Stop Shop).

Tali regimi introducono un sistema europeo di assolvimento dell’IVA, centralizzato e digitale, che, ampliando il campo di applicazione del MOSS (concernente solo i servizi elettronici, di telecomunicazione e di teleradiodiffusione) ricomprende le seguenti transazioni:

vendite a distanza di beni importati da territori terzi o Paesi terzi (ad eccezione dei beni soggetti ad accise) effettuate da fornitori o tramite l’uso di un’interfaccia elettronica
vendite a distanza intracomunitarie di beni effettuate da fornitori o tramite l’uso di un’interfaccia elettronica
vendite nazionali di beni effettuate tramite l’uso di un’interfaccia elettronica
prestazioni di servizi da parte di soggetti passivi non stabiliti nell’UE o da soggetti passivi stabiliti all’interno dell’UE ma non nello Stato membro di consumo a soggetti non passivi (consumatori finali).

Lo sportello unico semplifica gli obblighi in materia di IVA per le imprese che vendono beni e forniscono servizi a consumatori finali in tutta l’UE, consentendo loro di:

registrarsi elettronicamente ai fini IVA in un unico Stato membro per tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ammissibili a favore di acquirenti situati in tutti gli altri 26 Stati membri
dichiarare l’IVA tramite un’unica dichiarazione elettronica OSS IVA ed effettuare un unico pagamento dell’IVA dovuta su tutte le cessioni di beni e prestazioni di servizi
collaborare con l’amministrazione fiscale dello Stato membro nel quale sono registrati per l’OSS e in un’unica lingua, anche se le loro vendite avvengono in tutta l’UE.

 

 

 

 

 

 

Approfondimenti

Gli strumenti per la ripartenza delle imprese: contratto di rioccupazione e contratto di espansione

Il Decreto “Sostegni-bis” approvato il 20 maggio 2021 dal Consiglio dei Ministri ha introdotto una serie di misure in tema di imprese e lavoro, destinate a sostenere la fase di ripresa delle attività produttive post pandemia con l’obiettivo di scongiurare l’effetto dei licenziamenti di massa e incentivare nuove assunzioni.

Si ricorda, infatti, che contrariamente a quanto inizialmente previsto, il nuovo decreto non ha inserito una nuova proroga al divieto di licenziamento, che rimane confermato fino al 30.06.2021 per la generalità delle aziende che non intendano richiedere la Cassa Integrazione Ordinaria (non COVID) e sino al 31 ottobre 2021 per le aziende che usufruiscono degli ammortizzatori COVID-19 quali FIS, Cassa integrazione in deroga e prestazioni erogate dai Fondi di solidarietà bilaterali.

Contratto di rioccupazione

Uno degli strumenti previsti dal Decreto Sostegni-bis (art. 41) per agevolare nuove assunzioni è il c.d. contratto di rioccupazione. Si tratta di una nuova tipologia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rivolto ai lavoratori che si trovino al momento dell’assunzione in stato di disoccupazione ed è caratterizzato da un periodo iniziale di inserimento, al termine del quale le parti possono decidere liberamente se confermare o recedere dal contratto.

Le caratteristiche principali del nuovo contratto di rioccupazione possono essere riassunte come segue:

caratteristica peculiare di tale strumento è la predisposizione da parte del datore di lavoro, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento di durata pari a 6 mesi finalizzato a “garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo”.
Il contratto è soggetto fin dalla sua instaurazione alla disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con la conseguenza che durante il periodo di inserimento, trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo.
Diverge, invece, dal contratto a tempo indeterminato “standard”, in quanto al termine dei primi 6 mesi di inserimento, le parti possono recedere dal contratto ai sensi dell’art. 2118 cod. civ., con preavviso decorrente dal medesimo termine. Laddove le parti non recedano il rapporto prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ambito di applicazione: sarà possibile assumere con contratto di rioccupazione e godere delle relative agevolazioni per tutti i datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo e del settore domestico, purché nei sei mesi precedenti all’assunzione non abbiano effettuato licenziamenti collettivi o individuali per motivo oggettivo; possono essere assunti solo lavoratori in stato di disoccupazione;
Potranno, inoltre, essere stipulati tali contratti, salvo successive proroghe, soltanto per il periodo dal 01 luglio 2021 al 31 ottobre 2021.
L’incentivo ad assumere con tale tipologia contrattuale consiste nell’ esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali – con esclusione dei premi e dei contributi dovuti all’INAIL – per 6 mesi e nel limite massimo di importo di Euro 6.000,00 annui, da riparametrare ed applicare su base mensile.

L’incentivo rappresentato dall’esonero contributivo totale è, dunque, una buona opportunità di risparmio sul costo lavoro per le aziende, ma occorre fare molta attenzione, in quanto la norma chiarisce espressamente che l’esonero:

è escluso laddove nei 6 mesi precedenti all’assunzione con contratto di rioccupazione, il datore di lavoro abbia intimato licenziamenti per giustificato motivo ovvero abbia avviato procedure di licenziamento collettivo nella medesima unità produttiva;
è revocato (con conseguente restituzione del beneficio già fruito) nel caso in cui il lavoratore venga licenziato durante o al termine del periodo di inserimento, ovvero nel caso in cui il datore di lavoro, nei 6 mesi successivi all’assunzione, avvii un licenziamento collettivo o intimi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale di inquadramento del lavoratore assunto con il contratto di rioccupazione.

Contratto di espansione

Ulteriore strumento, più complesso del primo, finalizzato a favorire la ripartenza delle imprese, è rappresentato dal contratto di espansione, già introdotto dal decreto Crescita come strumento a sostegno dei processi di reindustrializzazione e riorganizzazione delle grandi imprese con organico superiore a 1000 unità.

Il Decreto “Sostegni-bis” è intervenuto riducendo a 100 dipendenti la soglia minima per accedere al “contratto di espansione” rappresentando un’opportunità anche per le PMI.

Le imprese, interessate da tale requisito dimensionale, raggiungibile anche attraverso una rete di imprese, che  intendano avviare modifiche organizzative e produttive finalizzate all’innovazione tecnologica,  possono accedere, attraverso il contratto di espansione, ad un piano  di riorganizzazione  stipulato in sede governativa con le rappresentanze sindacali  e contare in tal modo su cassa integrazione straordinaria e  agevolazioni contributive  per piani di assunzione contestuali alle uscite, volontarie, dei lavoratori più anziani.

La misura prevede, infatti, diversi interventi all’interno dell’azienda, essendo necessario:

un piano assunzioni di risorse umane qualificate e specializzate, in possesso delle competenze necessarie all’impresa per restare competitiva.
Scivoli per la pensione: avvio di piani concordati di esodo per i lavoratori che si trovino a non più di 60 mesi (5 anni) dal conseguimento del diritto alla pensione. Gli interessati devono dare il loro consenso in forma scritta. A questi lavoratori il datore di lavoro riconosce un’indennità mensile, “di esodo”, commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto fino alla prima decorrenza utile della pensione. Da tale somma viene dedotto l’importo di NASPI che sarebbe spettato al lavoratore per tutto il periodo di spettanza dell’indennità di disoccupazione.
Riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti con accesso alla cassa integrazione straordinaria per i lavoratori che non hanno i requisiti per accedere allo scivolo pensionistico per un massimo di 18 mesi; la riduzione media oraria non può superare il 30% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati. Inoltre, per ciascun lavoratore la percentuale di riduzione complessiva dell’orario di lavoro può essere concordata, fino al 100% nel periodo coperto dal contratto.
un piano di formazione per i dipendenti che abbiano bisogno di aggiornamenti, soprattutto tecnologici.

Per presentare il piano l’impresa deve:

concordare con le RSA o alla RSU delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati, nonchè la volontà di sottoscrivere un contratto di espansione ex art. 41 comma 5 e 5 bis D.Lgs. 148/2015.
Deve anche essere presentata domanda di esame congiunto della situazione aziendale al competente al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, o agli uffici regionali.

Appalti pubblici Approfondimenti

Green Public Procurement (GPP)/appalti pubblici verdi: le misure di politica ambientale nelle procedure ad evidenza pubblica.

Gli Appalti pubblici verdi (“Green Public Procurement” o “GPP”) consistono in istituti di disciplina della politica ambientale che permettono alla Stazione Appaltante di scegliere servizi e forniture aventi ad impatto ridotto sull’ambiente.

Si tratta, dunque, del primo strumento legislativo nell’ambito degli appalti pubblici volto da un lato a ridurre il consumo energetico e dall’altro ad agevolare lo sviluppo sostenibile.

In primo luogo, l’art. 34 del codice dei contratti pubblici prevede che le stazioni appaltanti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi (cd. CAM).

Ma prima di tutto è necessario capire cosa sono i criteri ambientali minimi. Gli stessi, definiti per le varie fasi del processo di acquisto, sono volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale lungo il ciclo di vita, tenuto conto della disponibilità di mercato.

I CAM sono dotati con Decreto del Ministro dell’Ambiente della Tutela del Territorio e del mare e la loro applicazione sistematica ed omogenea consente di diffondere le tecnologie ambientali e i prodotti ambientalmente preferibili, inducendo gli operatori economici meno virtuosi ad adeguarsi alle nuove richieste della pubblica amministrazione.

Ma l’aspetto più importante è che i criteri ambientali minimi definiti dal predetto decreto, in particolare i criteri premianti, devono essere tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara per l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 95, comma 6, D. Lgs. 50/2016 e, nel caso di contratti relativi alle categorie di appalto riferite agli interventi di ristrutturazione, inclusi quelli comportanti demolizione e ricostruzione, i suddetti criteri ambientali minimi devono essere tenuti in considerazione, per quanto possibile, in funzione della tipologia di intervento e della localizzazione delle opere da realizzare, sulla base di adeguati criteri definiti dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (art. 34, comma 2, D. Lgs. 50/2016).

La gestione dei CAM necessita però di forti competenze ambientali e procedurali per la redazione di atti di gara di qualità che riduca i ricorsi e garantisca buoni feedback da parte di ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) che vigila sulla correttezza dei bandi pubblici anche sotto questo profilo ambientale (secondo le modalità indicate nel Protocollo siglato con il Ministero dell’Ambiente).

Nell’ambito di tali criteri possono rientrare:

certificazioni e attestazioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, quali OSHAS 18001, caratteristiche sociali, ambientali, contenimento dei consumi energetici e delle risorse ambientali dell’opera o del prodotto;
il possesso di un marchio di qualità ecologica dell’Unione europea (Ecolabel UE);
il costo di utilizzazione e manutenzione, riguardo ai consumi di energia e delle risorse naturali, alle emissioni inquinanti e ai costi complessivi, inclusi quelli esterni e di mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici, riferiti all’intero ciclo di vita dell’opera, bene o servizio;
la compensazione delle emissioni di gas ad effetto serra associate alle attività dell’azienda.

Le stazioni appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono all’aggiudicazione degli appalti e all’affidamento dei concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita (art. 96, D.Lgs. 50/2016).

 

Costituiscono costi del ciclo di vita:

costi relativi all’acquisizione delle risorse;
costi connessi all’utilizzo, quali consumo di energia e altre risorse;
costi di manutenzione;
costi relativi al fine vita, come i costi di raccolta, di smaltimento e di riciclaggio.

Le aziende che intendono partecipare a procedure di gara pubbliche debbono pertanto adeguarsi agli standard ambientali sopra indicati: Firenze Legale è disponibile ad esaminare le caratteristiche e le certificazioni in possesso delle Vostre Aziende.

Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

IL CONTRATTO TRA BRAND ED INFLUENCER

Nel mondo digital sono sempre di più le imprese titolari di marchi più o meno conosciuti, che decidono di avvalersi di influencer per promuovere la vendita dei prodotti. Trattandosi di modalità di collaborazione che si stanno diffondendo sempre di più, la disciplina contrattuale è fondamentale a proteggere gli interessi, definire i principali aspetti, diritti ed obblighi di tutte le parti coinvolte.

Il contratto, atipico e di contenuto variabile, anche in relazione al tipo di campagna di marketing nel quale l’influencer è coinvolto, deve regolare dettagliatamente la prestazione prevendendo come contenuto minimo:

-individuazione delle parti: influencer o Agenzia che lo rappresenta;

-descrizione dettagliata dei contenuti da produrre: post, stories, video;

-frequenza della pubblicazione e termini di visibilità dei post: timing della pubblicazione dei contenuti (giorno e ora) e data in cui le pubblicazioni possono o devono essere eliminate;

-terminologia ed hashtag da utilizzare nella pubblicazione dei relativi contenuti;

-individuazione dei canali sui quali promuovere i prodotti: blog, social, siti e-commerce dei brand etc.;

– previsione di partecipazione degli influencer ad eventi organizzati dal brand.

 

Elemento centrale del contratto è la cessione da parte dell’influencer del proprio nome e dei diritti di sfruttamento della propria immagine per fine promozionale del prodotto che devono essere descritti dettagliatamente e individuati temporalmente. Mentre il contenuto creato dall’influencer rimane di sua proprietà, per questioni legate ai diritti d’autore. Tuttavia, può sempre includere nel contratto una clausola che autorizza a riutilizzare il contenuto in questione.

Tale autorizzazione prevista nel Contratto è indispensabile per procedere da parte del brand alla pubblicazione di post o immagini raffiguranti l’influencer, ai sensi della normativa sul diritto d’autore (art. 96 e ss. L. n. 633/1941), del il codice civile (art. 10) e delle disposizioni a tutela della privacy (GDPR) richiedono che il ritratto di una persona possa essere riprodotto, esposto o messo in commercio soltanto con il consenso di quest’ultima. Non ha nessuna rilevanza che l’immagine sia stata precedentemente pubblicata direttamente dall’influencer.

Nell’attività di pubblicazione da parte del Brand, deve essere tenuto presente anche la tutela di diritti di proprietà industriale di terzi. L’inserimento non autorizzato di marchi di terzi può determinare confusione per il consumatore destinatario dell’immagine, rappresentare una violazione dei diritti di esclusiva e potrebbe inoltre integrare un atto di concorrenza sleale con le conseguenti sanzioni.

Trattandosi evidentemente di contratti legati alla sfera dell’immagine, sarà opportuno per entrambe le parti prevedere clausole a tutela dell’immagine e della reputazione.

Lato influencer, potrebbe essere opportuno inserire una tutela che permetta di risolvere il rapporto contrattuale nell’ipotesi in cui il brand ponga in essere una condotta censurabile.

Lato Brand, potrà essere prevista analoga clausola in caso di condotta dell’influencer che possa ledere la reputazione del Brand. A sostegno di una tale previsione potrà essere allegato anche al contratto, se in possesso del Brand, il codice di condotta, così da assumere valore giuridico anche per l’attività dell’influencer.

Un ulteriore previsione che ha una rilevanza fondamentale nel contratto riguarda l’obbligo di riservatezza dell’influencer sul know-how aziendale del quale possa venire a conoscenza nel corso dell’incarico.

Infine, spesso per particolari campagne di marketing è possibile negoziare anche una clausola di esclusiva, che tuttavia  dev’essere limitata a un lasso di tempo ben preciso, considerando che una clausola troppo lunga rischierebbe di essere annullata in sede contenziosa.

 

Un ultimo aspetto da analizzare riguarda il divieto di pubblicità ingannevole.

Il Brand e l’influencer hanno l’obbligo di rendere riconoscibili le finalità promozionali dei contenuti pubblicati sul web, in modo da non indurre il consumatore in inganno, lasciando intendere che tale prodotto sia stato scelto spontaneamente dall’influencer.

L’AGCM ha precisato l’obbligo di rendere riconoscibili le finalità promozionali dei contenuti condivisi attraverso social media, con l’inserimento di hashtag dedicati: #pubblicità, #advertising ecc.,

Il decreto legislativo n. 145/2007 prevede espressamente che: “Con il provvedimento che vieta la diffusione della pubblicità, l’Autorità dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 500.000,00 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nel caso di pubblicità che possono comportare un pericolo per la salute o la sicurezza, nonché suscettibili di raggiungere, direttamente o indirettamente, minori o adolescenti, la sanzione non può essere inferiore a 50.000,00 euro”.

Anche l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si è occupato delle nuove forme della comunicazione commerciale attraverso la cosiddetta Digital Chart (integrata all’interno del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale). Alcune pronunce dello IAP hanno sanzionato imprese o influencer per messaggi di pubblicità occulta tramite influencer marketing, inibendo la riproposizione della condotta.

Approfondimenti Non categorizzato

Reati tributari e responsabilita’ degli enti ex d.lgs. 231/2001: una nuova inclusione

Da dicembre 2019 gli illeciti tributari sono entrati ufficialmente a far parte dei reati presupposto della responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001.

Con il primo intervento, ad opera del D.L. 26 ottobre 2019, convertito con modifiche in L. 19 dicembre 2019, n. 157, è stato introdotto nel decreto 231 il nuovo art. 25-quinquiesdecies che estende il catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti alle seguenti fattispecie:

– dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, co.1 e co. 2-bis, d.lgs. n. 74/2000);

– dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, d.lgs. 74/2000);

– emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, commi 1 e 2-bis, d.lgs. 74/2000);

– occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10, d.lgs. 74/2000);

– sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, d.lgs. 74/2000).

Successivamente, nel mese di luglio 2020, sono state ulteriormente ampliate le fattispecie tributarie rilevanti ai fini 231 mediante il recepimento della c.d. Direttiva PIF (Direttiva UE 2017/1371) che, da un lato, ha esteso ulteriormente il novero dei reati tributari presupposto della responsabilità degli enti – introducendo i reati di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. 74/2000), omessa dichiarazione (art. 5, d.lgs. 74/2000) e indebita compensazione (art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000) – e, dall’altro lato, ha limitato la responsabilità dell’ente per queste tipologie di reati, prevedendo che l’ente possa rispondere  solo se le condotte criminose sono commesse nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, al fine di evadere l’IVA e per un importo superiore a 10 milioni di euro.

Da un punto di vista pratico, questa estensione impone una ulteriore presa di coscienza e analisi delle società che potenzialmente potrebbero incorrere nella realizzazione delle ipotesi criminose di nuova introduzione. Per fare ciò, inevitabilmente, si dovrà partire da un’analisi del rischio di verificazione delle condotte criminose e delle procedure aziendali e dei protocolli interni al fine di valutare l’adeguatezza o la necessità di revisione dei medesimi ovvero l’introduzione di nuove procedure aziendali volte a prevenire e/o mitigare il rischio di realizzazione delle fattispecie criminose in parola.

Per quanto sopra, occorrerà prestare attenzione a specifiche attività che riguardano, a titolo esemplificativo, la corretta registrazione contabile di fatture o altri documenti, la tenuta della contabilità, il complesso delle attività dichiarative volte alla determinazione dei tributi con la redazione dei bilanci. Più in generale, si dovrà avere riguardo alle procedure aziendali riguardanti i rapporti con i fornitori, compresa la selezione ed identificazione della controparte, con la corretta contabilizzazione delle operazioni di acquisto e vendita e di ogni altra spesa. Di particolare importanza sarà l’attività di controllo svolta dal Collegio Sindacale e dalla società di Revisione, ove presenti, oltre che i controlli effettuati dall’Organismo di Vigilanza.

Infine, particolare attenzione dovrà essere dedicata alla predisposizione e/o aggiornamento dei Modelli Organizzativi di Gestione (MOG) e alla formazione dei responsabili incaricati di presidiare le procedure aziendali interessate.

Più nel dettaglio, a titolo meramente esemplificativo, di seguito si elencano alcune cautele che potranno essere seguite dagli enti al fine di mitigare il rischio di commissione dei reati di questa specie:

prevedere all’interno del Codice etico e del Modello organizzativo ex d.lgs. 231/01 specifici principi, obblighi e divieti relativi alla disciplina in materia tributaria idonei a prevenire la commissione dei reati tributari rilevanti in tema 231;
garantire la più rigorosa trasparenza contabile in qualsiasi momento ed a fronte di qualsiasi circostanza;
prevedere regole interne relative all’emissione e/o al ricevimento di documentazione afferente la contabilità aziendale, alla predisposizione e/o presentazione di dichiarazioni e comunicazioni relative alla materia tributaria, oltre che al pagamento di imposte;
adottare specifiche procedure per la gestione degli acquisti di beni e servizi, anche distinguendo le diverse tipologie (beni, servizi, investimenti, piccolo acquisti ricorrenti di modesto importo, ecc.), con identificazione dei ruoli coinvolti e delle responsabilità e con segregazione delle funzioni coinvolte nel processo, in particolare tra la gestione dell’ordine, la gestione dei pagamenti e la registrazione delle spese;
vincolare contrattualmente eventuali terzi a cui siano affidate le attività di predisposizione delle dichiarazioni e comunicazioni in materia di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, prevedendo apposite dichiarazioni del terzo consulente o della società: a) di essere a conoscenza della normativa di cui al D.lgs. 231/2001 e delle sue implicazioni per la Società; b) di impegnarsi a rispettare la normativa, garantendone il rispetto anche da parte dei propri dipendenti e collaboratori; c) di non essere mai stati condannati (o avere richiesto il patteggiamento) e di non essere al momento imputati o indagati in procedimenti penali relativi ai Reati Presupposto; nel caso di esistenza di condanna o di procedimento in corso, e sempre che l’accordo sia ritenuto indispensabile e da preferirsi a un contratto con altri soggetti, dovranno essere adottate particolari cautele; d) di impegno a rispettare il Modello Organizzativo di Gestione e il Codice Etico della Società, ovvero, nel caso di enti, di avere adottato un proprio analogo Modello e un Codice Etico che regolamentano la prevenzione dei reati contemplati nel Modello e nel Codice Etico della Società;
controllare che le fatture e i documenti contabili si riferiscano a prestazioni effettivamente svolte da parte dell’emittente delle fatture/documenti ed effettivamente ricevute dall’ente;
verificare la regolare applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e delle altre imposte sui redditi;
effettuare una costante attività formativa, a tutti i destinatari, su quanto previsto dal Codice etico e dal Modello organizzativo 231 aziendale, assicurando diffusione/formazione sulle diverse procedure/protocolli.

Tali previsioni dovranno essere inserite all’interno dei nuovi modelli di organizzazione, gestione e controllo, unico strumento che offre all’imprenditore, ai soci e alla governance aziendale un vero e proprio sistema integrato di controlli che consente di monitorare l’attività dell’impresa e, pertanto, di gestire in modo efficiente e puntuale qualsiasi forma di rischio (compreso quello fiscale e penale). 

Approfondimenti Non categorizzato

Effetti della Brexit sull’E-commerce

A seguito del referendum del 2017 sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, in cui il 52% ha votato per lasciare l’Unione Europea, è stato dato avvio al processo che ha determinato il 31 gennaio 2020 la Brexit, ovvero la fine dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea.

Ciò ha dato inizio a un periodo di transizione, iniziato appunto il 31 gennaio 2020, durante il quale il Regno Unito ha continuato a far parte del mercato unico, che garantisce la libera circolazione di persone, servizi, merci e capitali all’interno degli stati membri dell’Unione Europea e dell’unione doganale che assicura negli scambi commerciali una tariffa esterna comune a tutte le merci che entrano nel territorio dell’unione.

Il periodo di transizione si è concluso il 31 dicembre 2020, data i cui i rapporti fra Regno Unito e Unione Europea hanno iniziato ad essere regolati dall’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione sottoscritto il 24 dicembre 2020, che troverà applicazione fino al 28 febbraio 2021, salvo proroghe.

Tale accordo definisce le condizioni della futura collaborazione del Regno Unito con l’UE, incentrate principalmente su:

– un accordo di libero scambio di merci, di servizi e di un’ampia gamma di altri settori di interesse dell’Unione (es. investimenti, concorrenza, aiuti di Stato, trasparenza fiscale, trasporti aerei e stradali, energia e sostenibilità, pesca, protezione dei dati e coordinamento in materia di sicurezza sociale).

– un partenariato per la sicurezza dei cittadini attraverso una cooperazione tra polizie e autorità giudiziarie nazionali, per combattere e perseguire penalmente il crimine e il terrorismo transfrontalieri.

– Un accordo in materia di governance che chiarisca con quali modalità l’accordo sarà gestito e controllato, istituendo un consiglio incaricato di accertarsi che l’accordo sia applicato e interpretato correttamente.

A decorrere dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito ha quindi lasciato il mercato unico e l’unione doganale dell’UE insieme a tutte le politiche dell’Unione europea e agli accordi internazionali ed ha avuto pertanto fine la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali tra il Regno Unito e l’Unione europea.

CONSEGUENZE PER L’E-COMMERCE

In tale contesto di rapporti commerciali non ancora ben definiti, un’attenzione particolare viene posta al settore dell’e-commerce, alla luce del fatto che il mercato online britannico è per numero di vendite il terzo più importante a livello europeo.

Con l’uscita del Regno Unito dal Mercato unico europeo e la fine dell’unione doganale, si sono verificati gravi disagi per il commercio elettronico, in particolar modo per ciò che riguarda le attività di logistica e spedizione.

Nessun problema nel caso in cui il merchant disponga di un magazzino in UK, ma qualora venda la merce da un magazzino Italiano (o CEE), tutti gli ordini spediti nel Regno Unito potranno essere soggetti a DAZIO DOGANALE, ovvero un’imposta indiretta applicata sul valore dei prodotti importati ed esportati dal Paese.

L’ammontare dell’imposta viene quantificata dall’Autorità doganale sulla base del valore di ogni singolo prodotto acquistato.

I dazi doganali di norma devono essere pagati dal destinatario, affinché la merce possa effettivamente entrare in suo possesso. Se questo rifiuta il pagamento del dazio, il costo viene automaticamente addebitato al mittente della spedizione.

Oltre al pagamento del dazio, che è appunto una tassa che si aggiunge all’IVA, deve essere tenuto in considerazione anche il costo delle operazioni doganali, ovvero un corrispettivo richiesto dal vettore che corrisponde quindi ad un aggravio dei costi di spedizione.

Il dazio ed il costo per le operazioni doganali devono essere pagati sia quando il prodotto viene inviato all’acquirente che alla restituzione, in caso di reso. Questo crea non pochi problemi per la vendita di tutti quei prodotti il cui costo non riesce ad assorbire il valore dell’imposta.

Deve inoltre essere fatta attenzione alla documentazione accompagnatoria dei prodotti per gli ordini diretti in UK. La documentazione per lo sdoganamento deve contenere informazioni precise sul prodotto, tra cui il codice doganale delle merci, la descrizione dettagliata (marchio, composizione, Paesi di origine), il numero di pezzi, il peso netto e lordo, il valore di ogni articolo e totale, il valore della spedizione, ecc.

CALCOLO DAZI DOGANALI E VERSAMENTO IVA

Per la gestione fiscale e contabile delle vendite online B2C transfrontaliere dell’UE verso il Regno Unito, devono essere tenuti in considerazione il valore della spedizione ed il canale di vendita, quali variabili per determinare l’ammontare della tassa e gli adempimenti da porre in essere.

Per le spedizioni di prodotti con valore complessivo non eccedente £ 135 (inteso come valore dei prodotti, non comprensivo di eventuali oneri, come le spese di spedizione):

non verrà applicato alcun dazio doganale (cd. “low value relief”);
L’IVA sarà dichiarata e versata trimestralmente dal venditore europeo all’HMR, l’agenzia delle entrate britanniche.

Per le spedizioni di prodotti con valore complessivo eccedente £135 verrà applicato il dazio doganale (che può essere calcolato al seguente link ) e l’IVA britannica.

Per tali casi il merchant dovrá decidere se includere il costo dei dazi doganali e dell’IVA nel prezzo di vendita, incaricando il corriere di versare gli oneri d’importazione o se addebitare al destinatario britannico i dazi e l’IVA con pagamento al corriere.

Per quanto concerne invece le vendite effettuate tramite marketplace dal 1° gennaio 2021:

l’applicazione del dazio doganale dipenderà dal valore del prodotto (se eccedente o meno £ 135)
per l’IVA saranno i marketplace (es. Amazon, eBay e Alibaba) i responsabili della riscossione e del versamento dell’Iva sulle vendite B2C realizzate da imprese europee non stabilite in UK, ma con un loro stock nel Paese. Il merchant italiano non stabilito in UK ma con stock in loco dovrà in ogni caso attivare una partita IVA britannica, che sarà necessaria per indicare il valore delle vendite tramite marketplace, così da fare reverse charge all’importazione o richiedere rimborsi, oltre che dichiarare e versare l’Iva sulle vendite B2B.

ADEMPIMENTI PER L’ESPORTAZIONE

Vanno quindi tenuti in considerazione i seguenti adempimenti per le vendite nel Regno Unito tramite e-commerce effettuate dal 1° gennaio 2021:

Attivazione di partita IVA britannica, mediante l’apertura di un account UK Government Gateway. Non è necessario possedere un conto bancario britannico per richiedere un numero di partita IVA britannico.
acquisizione del codice EORI (Economic Operator Registration and Identification): si tratta di un codice di identificazione doganale dell’operatore economico riconosciuto da tutte le autorità doganali comunitarie, che serve come riferimento comune per lo scambio di informazioni tra le autorità doganali, per l’identificazione degli operatori economici e per lo scambio di informazioni tra le autorità doganali ed altri enti/organismi/autorità.
Ricerca codice TARIC: ossia il codice attribuito a ciascun prodotto, necessario per il calcolo dei dazi doganali sulla merce. Un errore nella nomenclatura, e di conseguenza nella tariffa doganale e categoria merceologica, può portare ad una sanzione oltre che al blocco della merce.
Compilazione dei moduli di dichiarazione doganale CN22 e CN23: sono documenti che devono essere obbligatoriamente allegati ai pacchi spediti al di fuori della UE, che vengono usati dalle autorità doganali per verificare le merci in entrata e in uscita da un determinato paese. Contengono informazioni importanti sulla merce che viene spedita ad esempio quali articoli sono inclusi nella spedizione e che valore hanno, identificazione del mittente e del destinatario e quali sono i soggetti coinvolti nella spedizione.
Verifica della necessità di allegare al pacco spedito licenze, certificati o nulla osta di esportazione, che vengono richiesti in casi specifici per particolari categorie di articoli.

Approfondimenti

Smart Working e controlli a distanza dei lavoratori: geolocalizzazione e software ad hoc

La pandemia e la conseguente legislazione di emergenza hanno sdoganato l’istituto dello “smart- working” (per approfondire vai all’articolo:Smart-working-in-cosa-consiste-come-si-realizza-perche-conviene/) divenuto da strumento poco conosciuto ed utilizzato soltanto dalle multinazionali o realtà di grandi dimensioni e unicamente per determinati profili, a modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa per la maggior parte delle imprese italiane.

Il passaggio a tale modalità lavorativa è stato, infatti, largamente incentivato dai decreti-legge che si sono succeduti nel corso dei mesi dell’emergenza sanitaria introducendo una procedura di attivazione semplificata, senza necessità di accordo tra le parti, in deroga alla l. n. 81/2017 e con possibilità di semplificata di assolvere all’obbligo di informativa sulla sicurezza.

Tale strumento se da un lato ha sicuramente permesso la prosecuzione delle attività aziendale, dall’altro lato ha trovato impreparati molti datori di lavoro i quali, spesso ancorati alla concezione ordinaria del rapporto di lavoro parametrato su un determinato orario e sulla possibilità costante di controllare l’operato dei propri dipendenti si sono posti il problema di mantenere tali prerogative anche con i propri smart worker.

Ecco allora che le domande più frequenti che ci sono state rivolte sul tema sono state le seguenti:

È possibile installare (ed utilizzare per fini disciplinari) sui pc aziendali un software che tracci la presenza del dipendente davanti al computer e/o il suo collegamento alla rete aziendale?
Posso effettuare controlli da remoto dell’attività svolta dai dipendenti che si trovano in smart working?
È possibile geolocalizzare i dipendenti attraverso un GPS da inserire nel PC per sapere se effettivamente si trovano a casa durante l’orario lavorativo?

Per rispondere a tali interrogativi occorre partire dall’analisi dell’ art.. 4 dello Statuto dei lavoratori, espressamente richiamato anche dalla normativa regolatoria del lavoro agile (L. 81/2017), il quale prevede un regime diverso a seconda del tipo di strumento utilizzato.

In via generale sussiste un divieto generale di utilizzo di strumenti tecnologici finalizzati unicamente al controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Sono invece ammessi, previo accordo sindacale o autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, i controlli a distanza dei lavoratori, effettuati attraverso determinate apparecchiature tecnologiche (impianti audiovisivi, strumenti di geolocalizzazione, ecc.) purchè installati in via primaria per esigenze di sicurezza del lavoro, per la tutela del patrimonio aziendale o per esigenze organizzative e produttive.
È espressamente escluso l’obbligo di accordo sindacale o di autorizzazione dell’ispettorato, laddove il controllo a distanza venga esercitato attraverso strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. A tal fine l’Ispettorato del Lavoro e il Garante della Privacy hanno precisato che per “strumenti di lavoro” devono intendersi tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa, ovvero direttamente preordinati all’esecuzione della prestazione lavorativa. (es. pc, telefono aziendale, posta aziendale).
Viene infine precisato dalla normativa che, in ogni caso, l’utilizzo delle informazioni raccolte è consentito a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (anche disciplinare) a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto della normativa sulla privacy nella raccolta e nel trattamento dei dati.

L’informativa  deve contenere espressamente l’indicazione degli strumenti che consentono il controllo a distanza nelle loro caratteristiche e funzionamento, le modalità e le regole di utilizzo di tali strumenti, il tipo di controlli che potranno essere effettuati dall’azienda,   i dati conservati e i soggetti abilitati ad accedervi, nonché le modalità e i tempi di conservazione dei dati stessi e le eventuali sanzioni, anche di tipo disciplinare, che potranno essere comminate al dipendente/trasgressore.

In definitiva, quindi, in mancanza di una policy aziendale adeguata e in caso di raccolta e trattamento dei dati secondo modalità contrarie alla legge sulla privacy, i dati non possono essere utilizzati, ad esempio, in sede giudiziale per dimostrare l’illegittimità del comportamento del dipendente accertato sulla base dei dati raccolti dagli strumenti di lavoro e non.

All’esito della disamina sopra svolta, volendo fornire una risposta agli interrogativi sopra indicati, possiamo affermare quanto segue:

Sono vietati l’installazione e l’utilizzo di software o altre apparecchiature e sistemi di controllo a distanzasullo svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente. Il ricorso a questi apparecchi può essere consentito solo in caso di accordo sindacale o di autorizzazione dall’Ispettorato territoriale del lavoro, per motivi di sicurezza aziendale o per esigenze produttive, che nel caso previsto nella prima domanda, difficilmente potrà essere raggiunto, trattandosi di strumenti unicamente a finalizzati al controllo dell’attività lavorativa
Il controllo anche se da remoto delle attività lavorative svolte tramite gli strumenti di lavoro, quali PC o posta elettronica, può essere effettuato a condizione che sia stata fornita adeguata informativa al dipendente e sia rispettata la normativa sulla privacy.
Il Garante per la privacy in più occasioni si è espresso nel senso di ritenere che gli strumenti di geolocalizzazione non costituiscono strumenti di lavoro, ma strumenti di controllo, che solo eccezionalmente si possono considerare in veri e propri strumenti di lavoro. Pertanto per la loro installazione è necessario procedere con accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro che verrà concessa solo ove rispondano ad un’effettiva esigenza organizzativa, produttiva o di sicurezza.

In conclusione, suggeriamo alle aziende che intendano continuare ad utilizzare lo smart working, anche dopo il periodo emergenziale, di prestare molta attenzione al tema del possibile controllo a distanza delle attività lavorative e regolare fin d’ora ogni aspetto, stipulando accordi con il lavoratore e dotandosi di una policy aziendale adeguata, spesso sottovalutata, ma di grande importanza per evitare spiacevoli sorprese sia in caso di accessi degli enti ispettivi, sia in caso di contenzioso con i dipendenti.

Approfondimenti

Espressioni sconvenienti nei rapporti con i magistrati o con i colleghi.

È principio fondamentale e soprattutto morale che nell’esercizio della professione l’avvocato deve porre ogni rigoroso impegno nella difesa del proprio cliente, senza però mai travalicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della controparte, del suo legale, dei terzi e del magistrato, in ossequio ai doveri di lealtà, correttezza e ai principi di colleganza.

Il diritto di difesa, quindi, incontra un limite insuperabile nella civile convivenza e nel diritto della controparte, del suo legale o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato nel corso di un procedimento giudiziario.

L’avvocato ha, dunque, il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l’avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive non solo nei confronti del collega avversario ma anche dei magistrati, delle parti e più in generale dei terzi, la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d’ira o d’agitazione che da questa dovesse derivare (sentenza n. 42 del 25 Febbraio 2020).

Negli ultimi anni il Consiglio Nazionale Forense è intervenuto in più di un’occasione per fare chiarezza sulla normativa, evidenziando i limiti entro i quali è possibile esercitare il diritto di difesa e, quindi, le ipotesi di violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico forense in cui incorre l’avvocato, basandosi soprattutto sulla norma di chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”. Del resto, “l’avvocato che faccia uso di espressioni sconvenienti ed offensive, anche mediante accuse rivolte direttamente ad un collega, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di colleganza e correttezza a cui ciascun professionista è tenuto” (in questi termini, Consiglio Nazionale Forense 20 marzo 2014 n. 31).

Secondo il Consiglio Nazionale Forense, il limite di compatibilità delle esternazioni verbali o verbalizzate e/o dedotte nell’atto difensivo dal difensore con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale, oltre il quale si prefigura la violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico, va individuato nella intangibilità della persona del contraddittore.

Pertanto, si rientra nella sfera del lecito quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte e le opposte tesi dibattute, potendosi ammettere anche crudezza di linguaggio e asperità dei toni. Tuttavia, quando la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo, l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti (così, CNF 25 settembre 2017 n. 136; CNF 29 novembre 2012 n. 159).

Di conseguenza, violano l’articolo 52 le espressioni usate dal professionista che rivestono un carattere obiettivamente sconveniente ed offensivo e che si situano ben al di là del normale esercizio del diritto di critica e di confutazione delle tesi difensive dell’avversario, per entrare nel campo, non consentito dalle regole di comportamento professionale, del biasimo e della deplorazione dell’operato dell’avvocato della controparte, dovendo peraltro ritenersi implicito l’«animus iniuriandi» nella libera determinazione di introdurre quelle frasi all’indirizzo di un altro difensore in una lettera ed in un atto difensivo (cfr. CNF 18 dicembre 2017 n. 207; CNF 21 dicembre 2009 n. 185).

L’impianto sanzionatorio è il seguente:

Sanzione attenuata
Sanzione Edittale
Sanzione Aggravata

Avvertimento
Censura
Sospensione fino ad un anno

 

Ai fini del trattamento sanzionatorio della condotta contestata, tuttavia, il Consiglio territoriale è tenuto ad operare un bilanciamento tra la considerazione di gravità dei fatti addebitati ed i concorrenti criteri di valutazione, pure rilevanti, connessi all’età dell’incolpato ed all’assenza di precedenti disciplinari (così, CNF 22 dicembre 2014 n. 204; CNF 27 febbraio 2013 n. 22).

Approfondimenti

Violazione dei segni distintivi ed internet: web sites e social media

Nel contesto attuale e con la progressiva espansione del web come luogo principale per la ricerca e lo scambio di informazioni ma anche come mercato unico globale per gli acquisti di prodotti, si sono moltiplicati i fenomeni di utilizzo illecito dei segni distintivi dell’impresa, che integrano atti di concorrenza sleale come previsto dall’art. 2958 c.c. .

L’Art. 2598 c.c. ,  rubricato Atti di concorrenza sleale prevede espressamente che: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

 

In particolare, i fenomeni che si sono sviluppati maggiormente sul web sono quelli legati alla diluizione e svilimento del marchio, ossia quando ne viene lesa la capacità distintiva e questo non è più in grado di individuare un prodotto specifico, cosi da ingenerare confusione nel consumatore. Tale fenomeno si può sviluppare attraverso il turnishing ovvero quando un marchio noto viene utilizzato per distinguere prodotti di qualità inferiore o attraverso il blurring, ossia l’associazione del marchio a prodotti differenti da quelli che lo caratterizzano. Tali condotte sono idonee a creare pregiudizio alla distintività del marchio ed a pregiudicarne la reputazione.

Inoltre, sul web è molto comune rilevare un utilizzo della denominazione del marchio per indirizzare il traffico internet su siti diversi da quelli ad esso legittimamente riferibili ingenerando confusione nell’utente-consumatore.

In particolare alcune delle pratiche commerciali scorrette più comuni sul web, che proprio per le caratteristiche intrinseche di questo tipo di mercato, risultano particolarmente pregiudizievoli per i titolari di marchi noti, sono le seguenti:

registrazione nomi di dominio corrispondenti al marchio noto (cd. domain grabbing);
adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword;
utilizzo del marchio noto come username sui social network.

 

Registrazione  con riferimento al marchio noto:

Tale fenomeno consiste nella registrazione di un nome di dominio corrispondente ad un marchio altrui effettuata al fine di sfruttarne la notorietà. Tale condotta può pregiudicare la registrazione di un nome di dominio contente il proprio marchio, ma soprattutto può ingenerare confusione nel consumatore e conseguente sviamento della clientela, qualora nel sito vi siano ulteriori riferimenti al predetto marchio.

La giurisprudenza si è espressa per una piena tutela del nome di dominio, riconoscendo espressamente che lo stesso appartiene al novero dei segni distintivi dell’impresa, in quanto assimilabile ad un vero e proprio diritto di proprietà industriale, comunque meritevole di tutela perché identificativo anche se a livello tecnico. In assenza di una disciplina specifica, al fine di tutelare il nome di dominio, il richiamo normativo utilizzato è quello dell’art. 7 del Codice civile che sancisce espressamente il diritto al nome prevedendo che “La persona alla quale si contesti l’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia può chiedere la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”. Inoltre, a tutela del nome a dominio, può essere richiamato il principio di unitarietà dei segni distintivi, all’art. 22 c.p.i., che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

 

Adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword.

Un’ulteriore ipotesi di contraffazione online di marchi rinomati online non immediatamente percepibile dal consumatore consiste nell’uso del marchio rinomato altrui come meta-tag, ossia parole chiave, non immediatamente visibili sulla pagina web, impostate per aumentare la visibilità o la facilità di ricerca del sito web, tramite l’associazione ad una specifica pagina. Ciò ha come effetto che se l’utente ricerca quello specifico marchio, lo stesso venga indirizzato a pagine che non corrispondono allo stesso, ma che utilizzano meta tag ad esso riconducibili.

È evidente come tale utilizzo garantisca al sito web una visibilità, legata alla notorietà del marchio, che altrimenti non avrebbe e ciò con effetto diretto sullo sviamento della clientela. Inoltre, tale utilizzo spiega effetti anche sul valore del marchio che subisce un effettivo svilimento nell’essere messo a confronto con un marchio di minor valore e con prodotti di quest’ultimo.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’uso del marchio altrui nei meta-tag costituisce, oltre che una pratica di concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale, una nuova ipotesi di contraffazione. La giurisprudenza si è spinta anche a configurare tale pratica come pubblicità ingannevole ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 D.lgs. 145/2007 che prevede che “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea ledere un concorrente”.

 

Utilizzo del marchio noto come username sui social network.

I social network, in particolare Facebook, Instagram e Pinterest, sono ormai veri e propri canali di acquisti di prodotti, in particolare per la moda e l’arredamento che si basano su un sistema di sollecitazione di acquisto fondato su sponsorizzazioni, post ma anche scambio di opinioni dei consumatori. I social, nei quali manca tuttavia una sostanziale regolamentazione, hanno avuto l’effetto di aver aumentato le ipotesi di contraffazione. È comune, infatti, che il titolare di un marchio rilevi la presenza di account con denominazioni identiche al proprio marchio gestiti da terzi estranei oppure riscontri l’apertura di pagine con username che riproducono la denominazione del marchio. Anche in queste ipotesi, il principio che viene in aiuto è l’unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 c.p.i., analogamente a quanto sopra esposto, che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

É evidente come l’ampiezza dei possibili contenuti che si trovano sul web e la molteplicità delle forme di commercializzazione e pubblicità danno luogo a molte e diverse ipotesi di lesione dei segni distintivi, per cui risulta sempre più necessario impostare attività di prevenzione e monitoraggio, nonché di attività dirette volti alla cessazione delle condotte descritte con interventi legali immediati a fine di scongiurare che tali pratiche possano avere importanti ricadute economiche e di prestigio sulle aziende titolari dei marchi.