Approfondimenti

“SMART WORKING” in cosa consiste, come si realizza, perché conviene

Definizione e tratti distintivi
Lo “smart working” o “lavoro agile” è stato introdotto per la prima volta in Italia dalla L. 22 maggio 2017, n. 81 con lo scopo esplicitato nella suddetta normativa di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Per comprendere il reale significato del “lavoro agile” occorre innanzitutto sgomberare il campo da possibili e ricorrenti equivoci e precisare che lo “smart working” non è una nuova tipologia contrattuale del rapporto di lavoro (trattandosi pur sempre di lavoro subordinato), nè si tratta del lavoro svolto interamente da casa, con modalità da remoto, che invece caratterizza il c.d. telelavoro.
Si tratta, invece, di una particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che implica un nuovo approccio al modo di lavorare e collaborare all’interno di un’azienda, consentendo al lavoratore, mediante accordo tra le parti, di svolgere la prestazione in parte all’interno dei locali aziendali ed in parte al di fuori senza precisi di vincoli né di orario, né di luogo di lavoro.
Il responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, offre una puntale definizione del Lavoro Agile, affermando: “Smart Working significa ripensare il lavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio.”
I necessari corollari dello smart working sono i seguenti:

Flessibilità di orario e di luogo di lavoro
Il primo elemento che caratterizza il lavoro agile è la flessibilità, ovvero il superamento dello schema classico del rapporto di lavoro subordinato svolto all’interno dell’azienda e nell’arco di un determinato orario. Lo smart working presuppone, infatti, la concessione della libertà del dipendente di decidere, per il tempo di lavoro prestato al di fuori dei locali aziendali, di organizzare la propria attività lavorativa, senza alcun vincolo di orario, salvo il rispetto dei limiti di orario massimo giornaliero e settimanale previsti dalla legge e dai CCNL, e senza la necessità di recarsi presso l’azienda, scegliendo, ancora una volta liberamente, la propria sede di lavoro alternativa ai locali aziendali, che potrà coincidere con la propria abitazione, ovvero con uno spazio di co-working o più semplicemente una comune pubblica biblioteca.
Organizzazione dell’attività lavorativa per cicli, fasi e obiettivi
Il secondo corollario dello smart working, diretta conseguenza del primo, è la necessaria revisione dell’organizzazione dell’attività lavorativa da parte dell’azienda, che implica il passaggio ad una definizione del lavoro per fasi, cicli e obiettivi e non più basato unicamente sulle ore lavorate.
Se da un lato, dunque, la flessibilità tipica dello smart working implica libertà del lavoratore e possibilità di contemperare le esigenze di vita e di lavoro, dall’altro lato la determinazione di obiettivi periodici o precise fasi di lavoro, presuppone responsabilità, o meglio, responsabilizzazione del lavoratore.
La simultanea compresenza di tali elementi, consente, infatti, al datore di lavoro di poter verificare la produttività del proprio dipendente e determina, anche sotto tale profilo, un cambiamento nell’approccio del “controllo datoriale”. Il datore di lavoro, infatti, passa da un controllo di tipo formale, limitato al rispetto dell’orario e dell’ordinaria diligenza nello svolgimento della prestazione, ad un controllo di merito, slegato dall’orario e dal regolamento aziendale, ma rivolto alla verifica della concreta realizzazione del risultato.
La maggiore fiducia concessa al lavoratore, elemento imprescindibile dello smart working, va quindi di pari passo con la responsabilizzazione sui risultati portando ad una maggiore competitività e produttività aziendale.
Dotazioni tecnologiche    Terzo corollario dello smart working è l’utilizzo degli strumenti tecnologici necessari per lo svolgimento dell’attività lavorativa all’esterno dei locali aziendali. I requisiti tecnologici minimi per realizzare un programma di smart working saranno la disponibilità di un PC, di un telefono aziendale e di una connessione ad internet. Tali strumenti, devono essere forniti dal datore di lavoro il quale è tenuto a garantirne il buon funzionamento e il rispetto degli standard di sicurezza.

 

Come e quando può essere realizzato

Lo smart working, essendo una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, può essere introdotto in qualunque momento del rapporto di lavoro, previo accordo scritto con il lavoratore.
La L. 81/2017 prevede espressamente la necessità di un accordo scritto tra le parti che deve essere obbligatoriamente inviato telematicamente, tramite procedura on line, al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Tale accordo, sulla base di quanto previsto dall’art. 19 della L. 81/2017 deve prevedere tali requisiti minimi:
– La durata: l’accordo può essere sia a tempo indeterminato o determinato
– Il recesso: nel caso di accordi a tempo indeterminato il recesso è possibile con un preavviso di almeno 30 giorni (90 per i lavoratori disabili ai sensi dell’articolo 1 della legge 12 marzo 1999, n. 68), ovvero senza preavviso in caso di giustificato motivo. Negli accordi a tempo determinato, invece, non è ammessa la possibilità di recesso, salvo presenza di un giustificato motivo.
– Le modalità di svolgimento della prestazione: l’accordo deve contenere la disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, con particolare riguardo agli strumenti tecnologici utilizzati e al rispetto del diritto alla disconnessione per il lavoratore. Va infatti, ricordato, che l’utilizzo prevalente di tecnologie informatiche in combinato con la definizione degli obiettivi per fasi e cicli in assenza di un orario prestabilito non possono e non devono tradursi in una pretesa aziendale di perenne reperibilità, sussistendo un diritto del lavoratore alla disconnessione, che è opportuno disciplinare all’interno dell’accordo.
– Potere di controllo e disciplinare: nel programma di smart working devono inoltre essere illustrate le modalità di controllo della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, tenendo conto dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori.
I dati raccolti con l’utilizzo degli strumenti tecnologici di lavoro potranno, infatti, essere utilizzati per tutte le finalità attinenti al rapporto di lavoro, ivi compreso l’esercizio del potere disciplinare, purchè il lavoratore sia stato adeguatamente informato sull’utilizzo degli strumenti e sulle possibilità di controllo.

 

Le tutele dello smart – worker

Un elemento essenziale della normativa che introduce il c.d. lavoro agile è la parità di trattamento degli smart workers rispetto ai dipendenti che non aderiscono a tale tipologia di svolgimento del lavoro. Il trattamento normativo e retributivo deve essere il medesimo, come l’adozione delle adeguate norme di sicurezza. In particolare, per quanto riguardo l’orario di lavoro, di fianco al riconoscimento del diritto alla disconnessione, la norma riconosce come inviolabili i limiti di orario previsti dalla normativa vigente e dalla contrattazione collettiva.
I lavoratori “agili” hanno, inoltre, diritto alla tutela prevista in caso di infortuni e malattie professionali anche per quelle prestazioni rese all’esterno dei locali aziendali e nel tragitto tra l’abitazione ed il luogo prescelto per svolgere la propria attività.
Su tali aspetti, l’INAIL ha fornito le istruzioni operative nella circolare n.48/2017.
Si rileva, inoltre, che la Legge di Bilancio 2019, riconosce una priorità alle richieste di lavoro agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità e dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità.

 

Quali vantaggi per le aziende

Utilizzando le evidenze raccolte dall’Osservatorio sullo smart working attraverso survey e casi pilota, si può affermare che i benefici ottenibili dall’introduzione dello Smart Working da parte delle aziende possono essere concreti e rilevanti, traducendosi in un miglioramento della produttività del lavoratore, riduzione dell’assenteismo e riduzione dei costi per gli spazi fisici.
È lo stesso legislatore ad identificare due motivi per i quali datore di lavoro e lavoratore possono trarre vantaggi dal ricorso alle modalità di lavoro agile: si tratta dell’incremento di competitività dal lato datore di lavoro e l’agevolazione della conciliazione vita lavoro, dal lato lavoratore. L’incremento di competitività può essere letto nella duplice sfaccettatura dell’aumento di produttività e altresì nell’incremento dell’employer branding aziendale, attraendo la forza lavoro più talentuosa e motivata.
A questi primi due motivi si aggiunge quello più concreto ed immediato che consiste nella riduzione dei costi per l’impresa, in termini di minor costo per spazi ed attrezzature e altresì per lo svolgimento della prestazione lavorativa. In altre parole, il lavoratore che svolge la sua prestazione in modalità agile consente all’impresa di ridurre i costi di affitti, utenze e attrezzature, in quanto lo spazio necessario per l’organico si riduce in proporzione all’intensità e frequenza con cui la prestazione lavorativa si svolge in modalità agile.
La riduzione del costo del lavoro, infine, può derivare anche dai minori oneri per lavoro straordinario, che mal si combina con la modalità “smart” di lavorare che per sua natura, non ha vincoli di orario predefiniti.

Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa

Uso del marchio altrui per il posizionamento sul web: keyword advertising

Ad oggi è molto diffuso l’utilizzo dei servizi di posizionamento a pagamento (Ads), per la sponsorizzazione di attività aziendali , mediante la creazione di annunci e la scelta di parole chiave pertinenti alle esigenze e alle ricerche dell’utente.  Tale attività non presenta particolari criticità quando le parole utilizzate sono di uso comune oppure quando il marchio utilizzato è di proprietà del soggetto che crea l’inserzione. Diverso, invece, il caso in cui un’impresa utilizzi termini che corrispondono a marchi o ad altri segni distintivi di un’altra impresa o comunque quando l’inserzione sia creata da un soggetto terzo.

Al fine di inquadrare gli obblighi e le facoltà delle parti, è necessario tener presente il quadro normativo di riferimento contenuto nel Codice della Proprietà Industriale, in particolare agli artt. 20 e 21. L’art. 20 del Codice della Proprietà Industriale prevede che: “I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio” nonché nel diritto “di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica: 

a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; 

b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; 

c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.”

Tale diritto esclusivo, trova i limiti nell’art. 21 del Codice Proprietà Industriale, che prevede che il titolare, nello svolgimento della propria attività economica non possa vietare a terzi, l’uso del proprio nome e cognome, l’uso di indicazioni relative alla specie alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio, ovvero ad altre caratteristiche proprie del prodotto medesimo (il c.d. uso descrittivo), nonché l’uso del marchio di impresa se necessario per indicare la destinazione di un prodotto e/o servizio (es. accessori e/o pezzi di ricambio) purché tale uso sia conforme ai principi di correttezza professionale, ossia non determini il verificarsi di illeciti concorrenziali e non crei confusione all’interno del mercato.

Alla luce della normativa riportata, l’uso di marchi altrui come parole chiave per servizi di posizionamento di Google può astrattamente costituire violazione di marchio, tuttavia è necessaria una valutazione caso per caso al fine di comprendere le ragioni e la natura dell’utilizzo di quel determinato marchio come parola chiave. Infatti tra le parti potrebbe essere intercorso un accordo commerciale oppure, dall’analisi della fattispecie in concreto, potrebbe emergere l’applicazione del regime di libera concorrenza e pubblicità comparativa, pertanto è necessario valutare se la restrizione pubblicitaria rivela un grado sufficiente di danno alla concorrenza da poter essere considerata una restrizione della concorrenza per oggetto ai sensi dell’articolo 101.

 

RAPPORTI TRA IMPRESE CONCORRENTI:

La giurisprudenza comunitaria nel caso “Interflora” – Marks & Spencer (C-323/09) avente ad oggetto l’utilizzo, da parte di Marks & Spencer, della keyword “Interflora” per posizionare un annuncio di consegna di fiori a domicilio, senza riportare il marchio Interflora nel testo dell’annuncio, ha affermato che “il titolare di un marchio ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a prodotti o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando il predetto uso è idoneo a violare una delle funzioni del marchio”. La Corte evidenzia che l’assolutezza della tutela contro l’uso non consentito di segni identici ad un marchio, per prodotti o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, deve essere comunque contestualizzata, in quanto la tutela offerta dalla normativa mira solo a garantire che il marchio possa adempiere le proprie funzioni.

Le restrizioni imposte ai distributori nell’utilizzo della denominazione del brand sono da ritenersi illegittime e in violazione della normativa sulla concorrenza, pertanto non possono essere oggetto di accordo tra le parti, in particolare qualora ad imporle sia il brand stesso, anche indirettamente e non attraverso la sottoscrizione di accordi commerciali.

Con la decisione 17 dicembre 2018, la Commissione Europea, nel caso Guess, ha sanzionato l’azienda in quanto la stessa aveva imposto ai propri distributori indipendenti limitazioni per l’utilizzo del marchio “Guess” in particolare in Google Adwords.

La condotta di Guess si è concretizzata nel vietare ai rivenditori autorizzati, sia monomarca che multimarca, l’utilizzo o la possibilità di fare offerte su nomi e marchi commerciali di Guess come parole chiave in Google. Tale previsione non era inclusa negli accordi commerciali, ma posta in essere sistemticamnete ogni volta che un retailer chiedeva a Guess di utilizzare la denominazione in Google Adwords. Ciò in ragione del fatto che tali autorizzazioni avrebbero comportato un incremento dei costi per Guess stessa ed avrebbero diminuito la visibilità a discapito dei retailer.

La Commissione, richiamando la giurisprudenza della Corte Europea (cfr. Coty Case) ha affermato che la disciplina dei marchi autorizza il titolare di un marchio a vietare all’inserzionista pubblicitario di pubblicizzare beni o servizi identici a quelli per i quali il marchio è registrato utilizzando una parola chiave identica a tale marchio e selezionata dall’inserzionista senza il consenso del titolare, soltanto in circostanze in cui la pubblicità non consente o rende difficile ad un utente medio di Internet, accertare se i beni o servizi provengono dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata ad esso o da una terza parte.

Tale giurisprudenza non può essere invocata per giustificare una limitazione della capacità dei rivenditori autorizzati nei sistemi di distribuzione selettiva, che vendono prodotti reali, poiché in questo caso non vi è alcun rischio di confusione come all’origine dei prodotti e non ricade nello scopo di tutelare l’immagine del marchio.

Anche in Italia la giurisprudenza è intervenuta, il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, con sentenza 3280 del 2009, ha ritenuto illegittimo l’utilizzo, come parola chiave in una campagna Ads del marchio di nota società di noleggio, da parte di società concorrente; scelta che, secondo il Tribunale era evidentemente tesa a sfruttare la notorietà del marchio a proprio vantaggio configurando, nel caso specifico, un’attività confusoria, sviamento della clientela e violazione del marchio per l’individuazione di servizi offerti dall’inserzionista, sicuramente affini a quelli della società il cui marchio era stato inserito come parola chiave.

 L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è stata chiamata a decidere, nel mese di febbraio del 2015, su un caso di utilizzo di marchio altrui tra le parole chiave relative ad una campagna ads. In ordine all’utilizzo del marchio di nota società veneta di arredamento cucine da parte di società concorrente, senza che vi fosse alcun rapporto di natura commerciale, l’Autorità ha ritenuto che la condotta posta in essere dalla società inserzionista sia ingannevole e determini confusione tra i consumatori, così configurando un’ipotesi di pratica commerciale scorretta, ai sensi degli articoli 20, comma 2, 21, comma 1, lettere a) ed f), e comma 2, lettera a), del Codice del Consumo, ne vieta la diffusione o continuazione e irroga alla Società una sanzione amministrativa pecuniaria di 11.000 € (undicimila euro).

 

RAPPORTI CON L’INSERZIONISTA TERZO:

Per quanto riguarda l’aspetto della responsabilità dei motori di ricerca, la Corte di Giustizia Europea in data 23 marzo 2010, nel caso “Google France” ha delineato le responsabilità dei motori di ricerca nel caso in cui si verifichino illeciti concorrenziali realizzati dagli inserzionisti.

La Corte ha affermato che Google, al contrario dell’inserzionista, può beneficiare dell’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 14, n. 1 della Direttiva 2000/31CE per l’attività di catching, a condizione che si limiti ad attività di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo” e che non abbia nessuna conoscenza o controllo sulle informazioni.

Tale condizione non viene meno in considerazione del fatto che il servizio sia offerto a pagamento e che sia proprio in forza di tale pagamento che si visualizzano le inserzioni,  ma l’illecito si configura allorché l’annuncio che accompagna il link sponsorizzato induca l’utente di Internet a ritenere la sussistenza di un “collegamento economico” tra l’autore dell’annuncio o il titolare del sito, ovvero quando il medesimo sia talmente vago da non consentire all’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento” di sapere, sulla base di tale annuncio e del link, se tale collegamento sussista o meno.

In sostanza la responsabilità di Google residua a quelle ipotesi in cui, su segnalazione, non si intervenga prontamente alla rimozione della keyword segnalata come oggetto di atto di concorrenza sleale e contraffazione.

 

 

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Il divieto di commercializzazione di cannabis sativa: le motivazioni delle Sezioni Unite

Come avevamo anticipato, con riguardo alla commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa sativa, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: “La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della L. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicchè la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.

Vediamo adesso con quali motivazioni le Sezioni Unite sono giunte ad enunciare il sopra citato principio di diritto.

Il Supremo Consesso parte dall’analisi letterale dei vigenti testi normativi di riferimento e in particolare:

l’art. 14, comma 1, lett. b) del D.P.R. 309/1990 che nel dettare i criteri per la formazione delle tabelle che includono le sostanze stupefacenti, stabilisce che nella Tabella II debba essere indicata la cannabis e i prodotti dalla medesima ottenuti, senza effettuare alcuna distinzione tra le diverse varietà;
la tabella II, quindi, include fra le sostanze vietate “Cannabis (foglie e infiorescenze)”, “Cannabis (olio)”, “Cannabis (resina), nonché i relativi derivati, a prescindere dal THC presente;
l’art. 26, comma 1, del D.P.R. 309/1990 il quale stabilisce che è vietata la coltivazione delle piante previste nelle tabelle I e II di cui al sopra citato art. 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o altri usi industriali consentiti dalla normativa dell’Unione Europea;
l’ormai nota legge 2 dicembre 2016, n. 242 che, ai sensi dell’art. 1, si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole di cui all’art. 17 della Direttiva 2002/53/CE, che non rientrano nell’alveo di applicazione del T.U. in materia di Stupefacenti, e solo per le finalità ivi indicate.

A parere delle Sezioni Unite, dunque, la L. 242/2016, nel promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della Canapa Sativa, detta disposizioni volte ad incentivare la coltivazione delle varietà di canapa ammesse dalla citata Direttiva Europea, varietà di canapa che si collocano perfettamente nell’ambito delle coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o altri usi industriali.

In altri termini, la controversa novella legislativa non andrebbe a modificare alcunché rispetto al T.U. in materia di Stupefacenti, limitandosi a normare l’eccezione già prevista dal medesimo T.U. all’art. 26, vale a dire la coltivazione della canapa per la produzione di fibre o altri usi industriali.

Da ciò consegue la natura tassativa dei prodotti elencati all’art. 2 della L. 242/2016, con esclusione, dunque, della commercializzazione di infiorescenze, foglie, olio, resina e, più in generale, di ogni derivato che non sia non sia stato previsto dal legislatore del 2016, che, pertanto continua ad essere sottoposto alla disciplina dell’art. 73 del D.P.R. 309/1990 (T.U. in materia di stupefacenti) a prescindere dal valore di THC presente.

Invero, ricordano le Sezioni Unite, la Corte di Cassazione, prima, e la Corte Costituzionale, poi, hanno da tempo affermato che ciò che rileva ai fini della rilevanza penale delle condotte elencate dall’art. 73 D.P.R. 309/1990 non è il quantitativo esatto di THC presente nella sostanza stupefacente analizzata, ma la concreta efficacia drogante della sostanza. Ciò nel rispetto del principio di offensività concreta della condotta incriminata, principio di indubbia rilevanza costituzionale.

Infine, il Supremo Consesso svolge alcune considerazioni in merito alle clausole di esclusione di responsabilità previste dall’art. 4, commi 5 e 7, della legge 242/2016.

La normativa in esame prevede che vengano effettuati controlli a campione sulle coltivazioni di canapa al fine di determinare il livello di THC presente. Ebbene, se il livello di THC rilevato è ricompreso tra lo 0,2% e lo 0,6% “nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni” normative. Se, invece, la percentuale di THC complessivo risulta superiore al valore soglia dello 0,6%, la normativa prevede che possano essere disposti il sequestro e la distruzione della coltivazione, ferma restando l’esclusione di responsabilità in favore del solo agricoltore e non anche del commerciante.

Ricapitolando, le Sezioni Unite ritengono che la L. 242/2016 si limiti a disciplinare l’attività di coltivazione di canapa sativa delle varietà di cui all’art. 17 della Direttiva 2002/53/CE, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre ed altri usi industriali consentiti, eccezione già prevista all’art. 26 del T.U in materia di stupefacenti.

Pertanto, i prodotti elencati nell’art. 2 della L. 242/2016 avrebbero natura tassativa: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato.

In nessun caso, dunque, a parere delle SS.UU. della Corte di Cassazione, sarebbe possibile commercializzare prodotti diversi da quelli elencati dalla normativa in esame, con ciò escludendo la possibilità di commercializzare foglie, infiorescenze, olii, resine.

Vedremo se la futura giurisprudenza di merito e di legittimità seguiranno l’interpretazione offerta dal Supremo Consesso o riterranno di seguire il precedente orientamento – ad onor del vero minoritario –che dalla liceità della coltivazione di cannabis sativa L. fa discendere la liceità anche della commercializzazione dei derivati quali foglie e infiorescenze, purchè contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6%.

Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

Il contratto di agenzia: un confronto fra la normativa italiana e i principi degli ordinamenti tedesco, francese e spagnolo

In forza del contratto di agenzia una parte, l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere per conto di un’altra, il preponente, la conclusione di contratti in una determinata zona, a fronte del riconoscimento di una provvigione.

Tale contratto, da un punto di vista pratico, si adatta perfettamente alle necessità delle imprese di promuovere e commercializzare prodotti e servizi in mercati extra-nazionali senza la necessità di ricorrere a strumenti quali le filiali o la creazione di nuove società.

Con la Direttiva n. 86/653/CE il legislatore comunitario ha dettato una disciplina unitaria per tutti gli Stati membri al fine di armonizzare e coordinare le diverse normative.

Nel dare attuazione alla direttiva europea gli Stati membri hanno interpretato autonomamente ed in parte modificato le diverse norme creando così difformità nella regolamentazione del rapporto di agenzia.

Occorre inoltre tenere presente che secondo quanto previsto dell’art. 3 del Regolamento CE n. 593/2008 (Roma I), alle parti è lasciata la facoltà di scegliere liberamente la legge che disciplina il contratto mentre, nel caso di mancato utilizzo di questa facoltà, l’articolo 4.2 dispone che il contratto venga disciplinato dalla legge del paese nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica della pattuizione ha la residenza abituale.

Trattandosi di strumento molto diffuso è necessario conoscere le differenze che emergono tra la normativa italiana e la disciplina prevista dall’ordinamento tedesco, francese e da quello spagnolo.

 

LA FORMA DEL CONTRATTO

ITALIA: nell‘ordinamento italiano la forma scritta del contratto è richiesta ad probationem. Art. 1742 c. 2 c.c. “Il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduca il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive. Tale diritto è irrinunciabile”.

GERMANIA: non è richiesta necessariamente la forma scritta. Ciascuna delle parti, comunque, può pretendere che il contenuto dell‘accordo venga riversato in un documento scritto. Tale diritto non può essere escluso, ma la prova del contratto e del suo contenuto può essere dato sulla scorta dei comportamenti tenuti dalle parti.

FRANCIA: Il contratto di agenzia non richiede alcuna forma particolare ai fini della validità e non necessita di essere provato per iscritto.

SPAGNA: non è richiesta una forma particolare, fermo restando che la legge dichiara che ciascuna delle parti può, in qualunque momento, richiedere all’altra la formalizzazione per iscritto. È bene precisare che alcune clausole necessitano di forma scritta.

 

DURATA DEL CONTRATTO

ITALIA: la durata del contratto di agenzia è disciplinata dall’art. 1750 c.c. “Il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti successivamente alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all’altra entro un termine stabilito. Il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi.”

GERMANIA: il legislatore tedesco distingue tra rapporto a tempo determinato e rapporto a tempo indeterminato, con una disciplina sostanzialmente conforme a quella italiana. I termini di preavviso previsti per il recesso sono considerati termini minimi, non derogabili. Per accordo delle parti, invece, è possibile stabilire un termine più lungo rispetto al termine minimo previsto dalla legge tedesca.

FRANCIA: Il contratto di agenzia può essere stipulato sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Il Codice prevede che se il contratto a tempo determinato continua ad essere eseguito dalle parti anche dopo la scadenza del termine, automaticamente si ritiene stipulato a tempo indeterminato. Quando il contratto è a durata indeterminata, ciascuna delle parti può recedere dandone preavviso all’altra entro un termine, la cui durata minima non può essere inferiore ad un mese nel corso del primo anno di durata del contratto, due mesi per il secondo anno, tre mesi per il terzo anno e successivi; le parti possono prevedere un termine di preavviso maggiore purché non sfavorisca il mandatario rispetto al preponente.

SPAGNA: I contratti di agenzia, possono essere distinti in contratti a tempo determinato (determinado), ovvero a tempo indeterminato (indefinido). Per quel che riguarda i contratti a tempo determinato va tenuto in conto che questi si estingueranno allo scadere del termine pattuito tra le parti e qualora queste proseguissero il loro rapporto il contratto si considererà trasformato da tempo determinato a indeterminato.

 

L’OBBLIGAZIONE DELL’AGENTE

ITALIA: L‘obbligazione che caratterizza la figura dell‘agente è la promozione e conclusione di contratto di vendita per conto della ditta mandante

GERMANIA: nell’ordinamento tedesco l’obbligazione è sostanzialmente identica a quella prevista dalla normativa italiana, ma si concretizza in maniera completamente diversa. Infatti l‘attività svolta dall‘agente di commercio tedesco può essere rivolta non solo alla promozione e/o conclusione di contratti di vendita ma anche di contratti di acquisto.

FRANCIA: l’agente commerciale viene definito come un mandatario incaricato stabilmente di negoziare, ed eventualmente concludere, dei contratti di vendita, di acquisto, di locazione o di prestazione di servizi in nome e per conto del preponente; è considerato un professionista indipendente e senza alcun vincolo di subordinazione, cui viene attribuita ampia autonomia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro.

SPAGNA: L’agente ha il potere di promuovere gli atti o le operazioni oggetto del contratto ma può concluderli a nome del datore di lavoro solo se è in possesso di tale facoltà. Caratteristiche dell’agente spagnolo simili a quelle dell’agente italiano: attività svolta in maniera continuativa e stabile e indipendenza dell’agente.

 

LA ZONA – IL PORTAFOGLIO CLIENTI – L’ESCLUSIVA

ITALIA: nella normativa italiana la zona e la clientela vanno considerati elementi naturali del contratto. Il diritto di esclusiva è disciplinato dall’art. 1742 c.c. secondo il quale “il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro”.

GERMANIA: diversamente da quanto previsto in Italia, i riferimenti alla zona ed alla clientela sono elementi del tutto eventuali, da prevedere con un accordo specifico tra le parti. L‘ipotesi in cui all‘agente sia assegnata una determinata zona e/o clientela viene definito, appunto l‘agente di zona (figura distinta dall‘agente semplice). Sull‘agente di zona grava un più stringente obbligo di curare i clienti ricompresi nell‘ambito a lui assegnato, a fronte del riconoscimento della provvigione per tutti gli affari conclusi nella zona, indipendentemente dal suo intervento. Figura assai diffusa in ambito commerciale e non prevista espressamente dal codice è quella dell‘agente esclusivista. Le parti in tal caso concordano, per iscritto, non solo l‘assegnazione di una determinata zona, ma anche il divieto per chiunque (preponente incluso) di concludere affari nella zona affidata in via esclusiva all‘agente. Può essere previsto dal contratto anche il diritto di esclusiva in favore del preponente. L‘obbligo assunto dall‘agente di rappresentare una sola azienda deve essere oggetto di uno specifico accordo e non può essere contenuto in contratti unilateralmente predisposti dal preponente.

FRANCIA: l’esclusiva a favore del preponente è implicita, salvo che le parti pattuiscano diversamente. Rappresenta un’ipotesi di colpa grave la conclusione da parte dell’agente di altri contratti d’agenzia con società che commercializzano prodotti concorrenti, quando il contratto stipulato con la prima società gli impediva di rappresentare dei prodotti concorrenti con quelli fabbricati dal mandante. L’agente non può trattare alcun negozio che sia in conflitto di interessi con il preponente.

SPAGNA: l’esclusiva a favore del preponente è eventuale. L’agente, salvo patto contrario, può agire per conto di più preponenti con il consenso del preponente che svolga un’attività con beni o servizi che siano concorrenti o che abbiano natura simile.

 

PROVVIGIONI E INDENNITA’ DI FINE RAPPORTO

ITALIA: l’art. 1748 c.c. stabilisce che “per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento. La provvigione è dovuta anche per gli affari conclusi dal preponente con terzi che l’agente aveva in precedenza acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente, salvo che sia diversamente pattuito. L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta”. L’indennità di fine rapporto è disciplinata dall’art. 1751 c.c. che riconosce il dovere per il preponente di corrispondere l’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

GERMANIA: Per quanto riguarda il diritto alle provvigioni, in base alla disciplina tedesca, l‘agente ha diritto alla remunerazione se e nella misura in cui il terzo ha dato esecuzione all‘affare. L‘agente ha, inoltre, diritto ad ottenere “un adeguato anticipo” all‘atto dell‘esecuzione dell‘affare da parte del preponente. Tale riconoscimento viene meno solo con la certezza della mancata esecuzione da parte del terzo.
In relazione all‘indennità di fine rapporto la normativa tedesca prevede che l‘agente ha diritto a tale indennità al ricorrere delle seguenti condizioni: incremento portafoglio clienti del preponente; perdita di provvigioni per affari futuri; equità del pagamento dell‘indennità in relazione alle circostanze concrete.

FRANCIA: la provvigione è definita come quella parte di remunerazione commisurata all’andamento dei negozi ed è perciò soggetta ad oscillazioni. L’ammontare può essere concordato liberamente. In mancanza di un accordo, si fa riferimento a quanto viene abitualmente corrisposto in quel determinato settore di attività. Il diritto alla provvigione viene meno quando l’esecuzione del negozio fallisce per cause non imputabili al preponente. In questo caso, l’agente deve restituire al preponente anche le provvigioni eventualmente già ottenute.  Al momento della cessazione del suo rapporto col mandante, l’agente avrebbe diritto ad un’indennità di fine rapporto come corrispettivo del pregiudizio subito; essa dunque non è dovuta sulla base dell’aumento del volume di affari o di clientela operati dall’agente in favore del preponente, bensì sulla base del pregiudizio subito in conseguenza della fine del rapporto. La legge francese, tuttavia, non determina l’ammontare di tale risarcimento. La giurisprudenza francese è solita riconoscere all’agente un’indennità pari al doppio della media annuale delle provvigioni degli ultimi tre anni o sempre più spesso, pari alle provvigioni percepite negli ultimi due anni. Essa può essere superata dalla prova che il danno patito dall’agente sia stato superiore o inferiore alle due annualità “standard”.

SPAGNA: La retribuzione dell’agente è costituita da un importo fisso, da una commissione o da una combinazione delle due forma di retribuzione. Per gli atti e le operazioni concluse nel corso della durata del contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando si verifica una delle seguenti circostanze: (a) l’atto o l’operazione commerciale è stato concluso in conseguenza dell’intervento professionale dell’agente. b) che l’atto o l’operazione commerciale è stato concluso con una persona rispetto alla quale l’agente aveva precedentemente svolto attività di  promozione e, se del caso, concluso un atto o un’omissione, oppure operazione di natura analoga.  A seguito dello scioglimento del rapporto di agenzia, l’agente che abbia apportato nuovi clienti al preponente o incrementato sensibilmente le operazioni con la clientela preesistente avrà diritto ad un indennizzo, laddove la sua attività anteriore possa continuare ad apportargli vantaggi significativi e venga equitativamente valutata in base all’esistenza di patti di non concorrenza, alla perdita delle commissioni e alle altre circostanze ricorrenti. L’indennità da clientela è dovuta anche in caso di recesso anticipato del preponente.

Approfondimenti

La commercializzazione dei prodotti della canapa sativa: il no delle Sezioni Unite.

Da giorni ormai si sente dire che la Corte di Cassazione ha sancito che non si possono più vendere i derivati della canapa sativa.
Ebbene si.. è vero. Lo ha reso noto il Servizio Novità della Corte Suprema di Cassazione con l’informazione provvisoria n. 15 del 30 maggio 2019. 
In particolare, le Sezioni Unite hanno stabilito che «la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».
Ad oggi, non è dato sapere quale sia il ragionamento logico-giuridico seguito dal Supremo Consesso per giungere a tale conclusione. Lo sapremo quando verranno pubblicate le motivazioni della sentenza che tutti gli operatori del diritto – e non solo – stanno attendendo e che noi di Firenze Legale provvederemo a commentare subito dopo.
Quello che, per il momento, possiamo fare, in attesa di leggere le motivazioni, è tentare di capire quale fosse il contrasto giurisprudenziale in materia di vendita di canapa sativa e quali fossero le argomentazioni poste a sostegno dell’uno e dell’altro orientamento.
Andiamo per ordine.
Un primo indirizzo ermeneutico, che adotta un’interpretazione più letterale della norma, ritiene che la L. 242/2016 legittimi soltanto l’attività di coltivazione della canapa per le finalità espressamente indicate nell’art. 1, comma 3, attività tra le quali non figura la commercializzazione e/o cessione al pubblico dei derivati della pianta coltivata.
Da ciò conseguirebbe, a parere di tale indirizzo, l’inclusione delle attività di detenzione, cessione o commercializzazione al dettaglio dei prodotti della canapa sativa nell’alveo del D.P.R. 309/1990 (c.d. Testo Unico in materia di stupefacenti) a prescindere dal quantitativo di THC presente nel prodotto (fatta eccezione, chiaramente, per quei prodotti che siano totalmente privi di efficacia drogante e, dunque, con THC inferiore allo 0,2%).
Secondo un diverso orientamento, più estensivo, il legislatore del 2016 non avrebbe ricompreso la commercializzazione tra le attività e le finalità ammesse, in quanto tale attività sarebbe il risultato scontato ed implicito nella stessa coltivazione.
Invero, tale indirizzo parte dal presupposto che la L. 242/2016 mira a promuovere e sviluppare la “filiera agroindustriale della canapa” e non cita le attività successive alla coltivazione semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare a riguardo.
Se, infatti, la coltivazione di canapa con THC inferiore a 0,6% è legale ed ammessa non si comprende per quale motivo non dovrebbe essere legale ed ammessa la commercializzazione del prodotto di quella stessa coltivazione.
Peraltro, continua tale orientamento, è evidente come il legislatore, individuando la soglia di THC consentito nello 0,6%, abbia voluto individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela della salute e dell’ordine pubblico e la tutela dell’iniziativa economica libera.
L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite non ha preso posizione in favore né dell’uno, né dell’altro indirizzo, limitandosi a sottolineare gli aspetti salienti di entrambi gli orientamenti e lasciando, quindi, alle Sezioni Unite l’arduo compito di chiarire se fosse legittima o meno la commercializzazione dei derivati della canapa sativa.
Vedremo come le Sezioni Unite intenderanno motivare tale netta decisione. Se, in altri termini, faranno proprio il ragionamento riconducibile al primo dei due orientamenti contrapposti o se, viceversa, aggiungeranno qualcosa a tale ragionamento, individuando – magari – alcune eccezioni alla regola generale.

Approfondimenti

Non è nulla la vendita immobiliare in caso di difformità della costruzione rispetto al titolo edilizio menzionato nell’atto.

Non è raro il caso di proprietari di immobili che, nel momento in cui avviano le operazioni di vendita, si trovano, anche inaspettatamente, a dover affrontare questioni legate alla conformità dei titoli edilizi relativi all’immobile.

Problematiche di questo genere sorgono non solo in casi di veri e propri abusi edilizi non sanati, ma anche laddove vi siano difficoltà nel ritrovare la documentazione catastale ed urbanistica presso i competenti uffici pubblici.

Sennonché, recentemente la giurisprudenza si è espressa sul tema delle nullità c.d. formali o testuali nel contratto di compravendita immobiliare (disciplina, peraltro, applicabile anche a tutti gli atti a titolo gratuito aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali).

In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza del 22 marzo 2019 n. 8230, hanno affermato che la nullità dei contratti aventi ad oggetto diritti reali su immobili da cui non risultino gli estremi del permesso di costruire o della istanza di sanatoria (art. 46 d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 17 e 40 l. n. 47/1985) va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c. e deve qualificarsi come nullità testuale. In presenza della menzione degli estremi del permesso di costruire o dell’istanza in sanatoria, il contratto è valido a prescindere dalla conformità o difformità della costruzione realizzata rispetto al titolo edilizio menzionato nell’atto di trasferimento.

Non può invece ravvisarsi (oltre ad una nullità formale) anche una nullità sostanziale e virtuale ex art. 1418 co. 1, per contrarietà a norme imperative in ragione di difformità sostanziale della costruzione rispetto al titolo abilitativo.

Pertanto sussistendo il requisito di forma richiesto dalla legge (ovvero menzione degli estremi del permesso di costruire o dell’istanza di sanatoria) l’eventuale difformità sostanziale non comporta nullità del contratto, ma rileva esclusivamente in termini di inadempimento che giustifica la risoluzione del contratto.

Nella stessa ottica, è stata esclusa la nullità dei contratti aventi ad oggetto immobili, nel caso in cui le dichiarazioni previste dalla l. n. 47/1985, Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, artt. 17 o 40, siano state rese ma non siano conformi al vero.

In altri termini, la nullità prevista dalla l. n. 47/1985 (e ora l. n. 380/2001) assolve la sua funzione di tutela dell’affidamento, sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria.

Alla rigidità della previsione consegue che, come non può essere attribuita alcuna efficacia sanante all’esistenza della concessione o sanatoria che non siano state dichiarate nel contratto di compravendita di un immobile, così, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.

Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione.

Approfondimenti

Rent to buy: schema contrattuale e ambito applicativo

La formula del rent to buy consente al soggetto richiedente di poter entrare immediatamente in possesso di un immobile versando un canone periodico per un periodo determinato dalle parti, con la possibilità, in futuro, di poter acquistare quello stesso bene ad un prezzo inferiore, detraendo dal prezzo di acquisto i canoni già corrisposti.

Tale istituto è disciplinato dall’art. 23, comma 1, del D.L 133/2014 convertito con L.  164/2014, che ha subito modifiche con il D.L. 59/2016 “Salva Banche”.

Per effetto della stipula del contratto, il proprieta­rio dell’immobile ha l’obbligo di consegnare subito l’immobile o l’area al conduttore, che in cambio deve corrispondere il canone pattuito. Qualora alla scadenza del termine, il conduttore decida di procedere all’acquisto dell’immobile, il concedente è obbligato a trasferirlo ed il conduttore deve corrispondere quanto pattuito al netto della parte già corrisposta mediante i canoni. Qualora, invece, il conduttore decida di non acquistare l’immobile, il contratto cessa di avere effetto ed il concedente si riappropria dell’immobile, corrispondendo contestualmente al conduttore la parte di canone imputabile all’eventuale futura vendita.

La norma disciplina alcuni aspetti del contratto, il regime di trascrizione, la risoluzione, l’inadempimento e la sorte del contratto nelle ipotesi di fallimento del concedente, lasciando tuttavia massima libertà alle parti per quanto riguarda la regolamentazione dei principali aspetti, in particolare con riferimento alla durata, ai limiti massimi dei canoni da scomputare, nonché dei canoni minimi che dovranno essere versati.

In pratica, nel momento in cui viene stipulato il contratto del rent to buy viene stabilito il prezzo dell’immobile che resterà fisso per la durata del contratto, pari a tre anni, ora prolungata a dieci per dare maggior spazio alle parti nella determinazione del periodo di godimento. Il conduttore, in base a quanto accordato con il proprietario, dovrà sborsare un acconto, generalmente pari al 15% del valore dell’immobile.

Data l’importanza delle due componenti dei canoni periodici corrisposti dal conduttore al concedente, nel contratto del rent to buy deve necessariamente essere indicato, a pena di nullità del contratto, l’importo del canone corrisposto per il godimento dell’immobile (come in una locazione) e l’importo corrisposto come parte di quanto dovuto nel caso di futura cessione.

La norma prevede l’obbligo di trascrizione del contratto ai sensi dell’art. 2645-bis c.c., che dovrà quindi rivestire la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con la produzione dei medesimi effetti di cui all’art. 2643, 1° comma, n. 8, c.c..

Per le ipotesi di risoluzione, la norma afferma espressamente che il contratto si risolve in caso di mancato pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di canoni, determinato dalle parti, non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo”. Il comma 5 sancisce che nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento del concedente, “lo stesso deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali”; viceversa, se la risoluzione per inadempimento dipende dal conduttore, “il concedente ha   diritto   alla restituzione dell’immobile ed acquisisce interamente i canoni a titolo di indennità, se non è stato diversamente convenuto nel contratto”.

Con riferimento, all’inadempimento, la norma prescrive che trova applicazione l’art. 2932 c.c. sull’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, secondo il quale la parte non inadempiente può ottenere una sentenza che produce gli stessi effetti del contratto non concluso.

Il comma 6, infine, si occupa del fallimento del concedente e del conduttore: nella prima ipotesi, il contratto prosegue, fatta salva l’applicazione dell’art. 67, comma 3, lett. c), L.F. sulla revocatoria fallimentare; nella seconda, si applica l’art. 72 L.F., per cui spetta al curatore decidere se sciogliere o meno il contratto.

 

Rent to buy di azienda

Lo schema negoziale del rent to buy può essere utilizzato anche per soddisfare bisogni di natura non abitativa, ma aziendale, commerciale, professionale, imprenditoriale e/o strumentali alle stesse e dunque può avere ad oggetto oltre che un edificio abitativo, un edificio strumentale ed anche un’area agricola o strumentale ed anche un immobile in costruzione.

In particolare, con riferimento al rent to buy di azienda, si è espresso il Consiglio Nazionale del Notariato, che ha inquadrato tale schema contrattuale come il collegamento tra due contratti (in genere affitto di azienda e preliminare di cessione di azienda) che permette di entrare subito nel godimento dei beni dell’azienda, inizialmente in affitto con pagamento di un canone periodico (fase “rent”), e successivamente diventarne proprietari (fase “buy”) in un periodo di tempo prefissato attraverso l’acquisto vero e proprio e il pagamento del relativo prezzo, dal quale vengono scomputati, in tutto o in parte, i canoni pagati in precedenza.

Tale operazione comporta per l’acquirente un indubbio vantaggio dal punto di vista creditizio-finanziario, in quanto si ottengono i beni dell’azienda senza corrispondere fin da subito l’intero prezzo e con la conseguente possibilità di ottenere più facilmente un finanziamento al momento dell’acquisto pari al minor importo del prezzo ancora dovuto, in considerazione di quanto anticipato con i canoni. Mentre, per l’alienante, il beneficio principale oltre ad ampliare le possibilità di vendita del bene, è quello di alleggerire i costi di gestione che possono essere scaricati sull’acquirente. E’ importante precisare che nel periodo in cui si gode dell’immobile (paragonabile alla locazione), le imposte legate al possesso del bene sono a carico del proprietario, come in qualsiasi contratto di affitto.

 

 

Profili fiscali:

Con la circolare n. 4/E/2015 del 19.02.2015, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito il trattamento fiscale applicabile al contratto, affermando che: “Per quanto attiene al godimento dell’immobile, considerato che il contratto in esame comporta l’immediata concessione del godimento dello stesso a fronte del pagamento dei canoni, si ritiene che detto godimento deve essere assimilato, ai fini fiscali, alla locazione dell’immobile e, pertanto, per la quota di canone imputata al godimento dell’immobile trovano applicazione le disposizioni previste, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i contratti di locazione. Con riferimento ai canoni corrisposti dal conduttore, l’articolo 23, comma 1, chiarisce che le parti imputano al corrispettivo del trasferimento una quota di canone indicata nel contratto. Tale quota di canone che ha natura di anticipazione del corrispettivo del trasferimento deve essere assimilato, ai fini fiscali, agli acconti prezzo della successiva vendita dell’immobile. In sostanza, il trattamento fiscale da applicare al canone corrisposto dal conduttore deve essere diversificato in considerazione della funzione (godimento dell’immobile e acconto prezzo) per la quale dette somme sono corrisposte. In caso di esercizio del diritto di acquisto dell’immobile trova applicazione la normativa prevista, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i trasferimenti immobiliari “.

 

In sostanza:

le somme versate per il godimento del bene sono assoggettate alle disposizioni regolanti le locazioni sia per le imposte dirette che indirette. I canoni di locazione versati per il godimento di immobile ad uso abitativo restano in esenzione IVA a meno che il concedente sia un’impresa di costruzione e scelga il regime di imponibilità IVA. Allo stesso regime soggiacciono i fabbricati ad uso strumentale salvo che i soggetti passivi optino per l’imponibilità.
le somme imputate ad anticipazione del prezzo restano regolate dalla normativa tributaria in tema di acconti-prezzo e dunque assoggettate a imposta di registro (se gli acconti-prezzo sono soggetti ad IVA l’imposta di registro è dovuta nella misura fissa di € 200,00).
le somme corrisposte per il trasferimento definitivo dell’immobile alla momento della stipula della vendita sono da assoggettare alle ordinarie regole in tema di trasferimenti immobiliari, e al fine di evitare una duplicazione di imposte, devono tenere conto della tassazione sui canoni versati anticipatamente.

 

Approfondimenti

Equity crowdfunding: uno strumento alternativo per finanziare piccole e medie imprese.

Il Crowdfunding è una procedura di raccolta fondi attraverso la quale un gruppo di persone contribuisce, con il proprio denaro, alla realizzazione di un’idea innovativa o allo sviluppo di un progetto.

Esistono quattro modelli di crowdfunding:

DONATION CROWDFUNDING: è il modello utilizzato dalle organizzazioni no profit e onlus per il supporto delle loro attività benefiche. Il donatore che finanzia non riceve alcuna ricompensa materiale.
REWARD CROWDFUNDING: in tal caso i produttori del progetto offrono una ricompensa a chi li finanzia. Generalmente chi investe in questi progetti riceve in cambio il prodotto realizzato grazie alla raccolta fondi.
LENDING CROWDFUNDING:

è un prestito tra soggetti senza l’intervento degli intermediari finanziari. In sostanza vengono prestati i soldi ai richiedenti, che possono usare la piattaforma di crowdfunding per realizzare il proprio progetto e restituire il denaro una volta che il progetto sarà completato.

EQUITY CROWDFUNDING: a differenza delle altre forme di crowdfunding, questa permette a chiunque di entrare a far parte del capitale sociale di una società, una volta raggiunto l’obiettivo di raccolta prestabilito dal soggetto che ha richiesto il finanziamento. L’investitore diventa quindi socio a tutti gli effetti, acquisendo un vero e proprio titolo partecipativo oltre al diritto di percepire dividendi sugli utili e capital gain nel caso di cessione della propria quota.

 

LA NORMATIVA ITALIANA SULL’EQUITY CROWDFUNDING

L’Italia è uno dei pochi paesi al mondo ad aver applicato una normativa completa e chiara che disciplina il funzionamento dell’equity crowdfunding.

Tale normativa è stata introdotta dal D.L. n. 179/2012 che, consentiva il ricorso al finanziamento tramite crowdfunding solo alle imprese con la qualifica di start-up innovative. Successivamente, con il D.L. n. 3/2015, è stato consentito l’accesso al crowdfunding anche alle PMI innovative.

Nel 2017 è stata ammessa la quotazione tramite portali di crowdfunding anche alle PMI, non innovative, prima sono nella forma di società per azioni, poi estesa a tutte le PMI anche nella forma di SRL.

Anche la legge di Bilancio 2019 è intervenuta sul tema dell’Equity Crowdfunding, prevedendo alcune misure volte ad incentivare il ricorso a questo canale alternativo di finanziamento per le PMI.

Le novità:

Incremento del beneficio fiscale per chi investe in startup e PMI innovative:

per gli investimenti in startup e PMI innovative, viene aumentata dal 30 al 40% la detrazione dall’imposta per le persone fisiche e la deduzione dal reddito per le persone giuridiche.

Inoltre, viene introdotto un incentivo per favorire le acquisizioni di startup innovative e, dunque, le “exit” per chi aveva investito in precedenza, per esempio tramite una campagna di equity crowdfunding: le società (posto che non siano esse stesse start-up innovative) potranno dedurre dal proprio imponibile il 50% del valore dell’investimento nel caso in cui acquisiscano l’intero capitale sociale di start-up innovative, a condizione che le quote siano acquisite e mantenute per almeno 3 anni.

Emissione di bond tramite piattaforme di equity crowdfunding

Il crowdfunding viene esteso al debito offrendo così alle PMI un’ulteriore modalità di accesso al credito. Infatti, con il comma 236 dell’articolo 1 (che modifica l’articolo 1 comma 5-novies del TUF), la raccolta di capitali attraverso piattaforme che facilitano l’incontro fra domanda e offerta di finanziamento viene estesa, dal 1° gennaio 2019, anche alle obbligazioni o ad altri strumenti di debito, oltre che alle emissioni di azioni.

LE PIATTAFORME

Le operazioni di raccolta del capitale di rischio possono essere fatte esclusivamente all’interno di un portale online autorizzato e monitorato dalla CONSOB.

Ecco alcune tra le piattaforme di crowdfunding che hanno lanciato campagne di maggior successo:

MamaCrowd è nata nel 2016 ed ha raccolto oltre 10 milioni di euro per le campagne. Tra i progetti chiusi con successo c’è My Cooking Box, una startup che permette di preparare facilmente piatti della tradizione gastronomica italiana grazie a box con ingredienti già dosati e ShapeMe, il primo servizio per prenotare massaggi a domicilio (o in ufficio) in ogni momento.

StarsUp fondata nel 2013 è il primo portale ad aver ottenuto l’iscrizione al registro per la raccolta di capitale di rischio da parte di startup e PMI istituito dalla Consob.  Una delle campagne chiuse con successo è per SkyAccounting, un software cloud di fatturazione e contabilità per commercialisti, aziende e partite IVA.
CrowdFundMe è la piattaforma di equity crowdfunding più grande d’Italia. Per capitali raccolti, numero di investitori e campagne portate a termine. Tra le startup e le aziende lanciate dalla piattaforma ci sono CleanB&B, una startup per gestire affitti brevi e case vacanza.

Walliance è il primo portale italiano di Real Estate equity crowdfunding. Questa modalità di raccolta fondi per permette a tutti di avere accesso al mercato immobiliare con investimenti che partono da 500 euro.  Tra i progetti chiusi con successo rientra la realizzazione nel quartiere della comunità artistica di Wynwood a Miami (FL) di un edificio misto residenziale/commerciale e la conversione di Palazzo Cavour a Firenze, da edificio scolastico in residenziale.
CAMPAGNE DI EQUITY CROWDFUNDING: IL NUOVO BANDO 2019

La preparazione ed il lancio di una campagna di crowdfunding richiede un investimento iniziale sufficiente a coprire gli adempimenti preliminari: la predisposizione della documentazione finanziaria (business e financial plan), gli adempimenti legali e societari (informazioni sull’offerta, la delibera di aumento di capitale e le modifiche allo Statuto) e gli aspetti di comunicazione multimediale (realizzazione di un video descrittivo del progetto, creazione di storytelling e realizzazione del piano di comunicazione).

Al fine di agevolare il ricorso a questa forma alternativa di finanziamento, a marzo 2019 è stata avviata un’iniziativa sperimentale: la Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi ha pubblicato il primo bando finalizzato ad agevolare le imprese nel ricorso all’equity crowdfunding.

E’ stata prevista una dotazione di Euro 100.000 ed il finanziamento avviene tramite l’erogazione di voucher fino a 5.000,00 € che l’impresa può utilizzare per coprire alcune tipologie di spesa:

redazione di un business plan o di altra documentazione richiesta dai gestori della piattaforma Internet;

spese legali per l’adeguamento dello statuto o per altri adempimenti legali connessi alla realizzazione della campagna di crowdfunding;

redazione del Documento Informativo;

revisioni di bilancio o altre attività richieste dai gestori delle piattaforme Internet;

comunicazione e promozione legate alla campagna di crowdfunding;

realizzazione di pitch o di video di presentazione per presentare la campagna di crowdfunding.

Il voucher concesso alle imprese copre fino al 50% dei costi ammissibili, sulla base di un investimento minimo di 5mila euro.

Approfondimenti

GDPR 2016/679: adeguamento semplificato per Enti del terzo settore

GDPR 2016/679: ESISTE UN ADEGUAMENTO “SEMPLIFICATO” PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE?

Come ormai noto alla stragrande maggioranza degli operatori economici del nostro Paese, il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR).
Ciò che non è altrettanto noto è che questo regolamento si applica tanto alle realtà che perseguono un profitto (enti, società e/o professionisti in genere), quanto agli Enti del Terzo Settore o associazioni no profit, che dir si voglia.
Anche agli Enti del Terzo Settore, infatti, al pari di ogni altro soggetto che tratta dati personali, è imposto di adottare tutta una serie di misure di sicurezza a livello documentale, a livello informatico e a livello organizzativo.
Anzi, a ben vedere, sono proprio gli Enti del Terzo Settore che devono porre un’attenzione ancora maggiore all’”aspetto privacy” visto che, nella maggior parte dei casi, trattano dati relativi alla salute dei propri utenti e spesso lavorano con enti o amministrazioni pubbliche che, verosimilmente, molto presto, inseriranno l’adeguamento alla normativa privacy come requisito per partecipare a questo o quel bando pubblico.
Ma vediamo, più nel dettaglio, quali sono le misure “minime” che un’Associazione di Volontariato deve adottare per essere GDPR compliant.

L’attività di mappatura e di individuazione delle misure di sicurezza adottate
La prima attività dal quale ogni ente – profit o non profit – dovrebbe partire è una mappatura dei trattamenti effettuati e delle modalità con cui vengono trattati.
Partendo da tale aspetto, anche le associazioni potranno, da un lato, rendersi conto dei trattamenti effettuati grazie alla redazione del Registro dei Trattamenti, e, dall’altro, individuare le misure di sicurezza in essere e quelle che invece dovrebbero essere adottate.
Si badi bene, le misure di sicurezza e le prassi operative interessano tanto la gestione del dato a livello cartaceo/documentale, quanto e soprattutto il trattamento del dato a livello informatico.
Per tale motivo sarà necessario “mappare” anche il trattamento effettuato con mezzi informatici mediante il c.d. GDPR Assessment, verificando quali misure di sicurezza sono già state adottate dall’associazione per evitare la perdita e/o il trattamento illecito del dato (ad es. presenza di screensaver con password nei pc, presenza di credenziali di accesso al server, presenza di antivirus, salvataggio in cloud dei dati, criptazione dei dati ecc.) e quali, viceversa, dovranno essere adottate con l’aiuto, nella maggior parte dei casi, di un tecnico informatico.
La predisposizione delle informative
A livello documentale, una volta individuate le categorie di trattamento effettuate, non si potrà prescindere dal predisporre un adeguato sistema di informative con cui l’Associazione dovrà comunicare i propri associati, utenti, dipendenti, volontari e fornitori o collaboratori esterni del tipo di trattamento che l’Associazione effettua, delle finalità perseguite, delle modalità con cui viene posto in essere il trattamento, del periodo di conservazione dei dati (si badi bene, i dati personali raccolti non possono essere tenuti per sempre!), oltre che dei diritti che ogni interessato può vantare nei confronti della stessa associazione.
 La redazione delle Autorizzazioni al trattamento e delle Nomine a Responsabile
Ci sarà, poi, da predisporre le autorizzazioni al trattamento da consegnare ai dipendenti e/o volontari che materialmente effettuano le attività di trattamento e da individuare e nominare Responsabili Esterni tutti quei soggetti, appunto, esterni all’associazione (ad es. il commercialista, il consulente del lavoro, il tecnico informatico, il fornitore di server o gestionali ecc.) che trattano dati personali per conto dell’ente del terzo settore.
L’adozione di nuove procedure aziendali
Il nuovo sistema privacy impone, infine, l’adozione di una serie di cautele a livello operativo.
Sarà quindi indispensabile anche per l’ente no profit adottare delle nuove procedure maggiormente rispettose della riservatezza del dato trattato.
Senza procedere ad un esame delle singole procedure adottabili, anche mediante l’adozione di un Modello Organizzativo di Gestione che le ricomprenda, c.d. MOG Privacy – procedure che inevitabilmente non potranno e non dovranno essere standardizzate, ma adattate alla singola realtà dell’ente – preme spendere alcuni brevi cenni sulla procedura di Data Breach, che, più di altri aspetti, ha generato il panico tra gli operatori nazionali.

Per Data Breach si intende la violazione delle misure di sicurezza adottate che comporta la perdita, la distruzione, la modifica, la divulgazione o l’accesso non autorizzati di dati personali di cui è Titolare l’ente. In casi del genere, ai sensi dell’art. 33 del Regolamento Europeo 2016/679, l’associazione ha l’obbligo di informare, entro 72 ore dalla scoperta della violazione, l’Autorità di controllo, informandola del tipo di violazione, delle categorie di dati violati, del numero approssimativo di interessati coinvolti, dei dati di contatto del Responsabile della Protezione dei Dati o di altro soggetto incaricato dall’Associazione, delle probabili conseguenze che deriveranno dalla violazione e delle misure di sicurezza adottate per porre rimedio alla violazione medesima e per attenuarne le conseguenze negative.

Ad ogni modo, a prescindere dai singoli documenti da predisporre o dalle singole procedure e/o misure di sicurezza da adottare, è fondamentale comprendere ed attuare il c.d. principio dell’accountability che consiste nell’informazione e nella conseguente responsabilizzazione del Titolare del trattamento, vale a dire, per quanto qui maggiormente interessa, dell’Ente del Terzo Settore.
Ogni Titolare, poi, avrà una sorta di potere discrezionale per individuare le misure documentali, operative e informatiche da adottare sulla base dei propri mezzi a disposizione.
Ciò che è veramente fondamentale è quantomeno iniziare il processo di adeguamento alla normativa privacy, così da poter dimostrare in caso di controlli – che, pare, abbiano già avuto inizio – che l’ente si sta adeguando ed evitare l’applicazione delle sanzioni previste.

Approfondimenti

Legge 11/2019 di conversione del Decreto Semplificazioni (D.L. 135/2018): gravi illeciti professionali

La legge n. 11/2019 converte in legge il Decreto 135/2018 in materia di misure di semplificazione della P.A.
Il testo legislativo riguarda le materie sanità, ambiente, agricoltura, giustizia, istruzione e formazione artistica e musicale, università e ricerca, con diversi interventi volti ridurre il complesso degli adempimenti amministrativi per cittadini e imprese.
Per quanto concerne la materia degli appalti, il D.lgs. 50/201 6viene modificato, in materia di esclusione dalla gare per gravi illeciti professionali, dall’art 5 della legge 11/2019.
Più nel dettaglio, viene sostituita la lettera c) del comma 5 dell’articolo in questione, che quindi introduce la possibilità di escludere dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico, qualora la stazione appaltante dimostri, con mezzi adeguati, che esso si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
Prima dell’approvazione del decreto legge Semplificazioni, il Codice dei contratti prevedeva, a titolo esemplificativo, alcune condizioni al verificarsi delle quali la stazione appaltante avrebbe potuto escludere un operatore economico dalla partecipazione ad una gara, dopo aver dimostrato con mezzi adeguati la sua condotta illecita. L’elenco delle cause di esclusione per gravi illeciti professionali, contenute alla lettera c) del comma 5, era stato considerato non tassativo dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, 2 marzo 2018, n. 1299).
Con il decreto Semplificazioni e con la conseguente legge di conversione, il testo dell’articolo 80, comma 5, lettera c) viene allineato alla direttiva europea 2014/24/Ue. In particolare, è stata adeguata l’indicazione introduttiva che rende tassativo l’elenco delle cause di esclusione.
Dunque, così come riformulato, il testo prevede che la stazione appaltante possa escludere l’impresa purché dimostri, con mezzi adeguati, che l’operatore economico si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
Inoltre, ai sensi delle nuove lettere c-bis) e c-ter) le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore, qualora l’operatore economico abbia:
– tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (lettera c-bis);
– dimostrato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili. Su tali circostanze la stazione appaltante deve motivare anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa (lettera c-ter).
Delle possibili rilevanti modifiche al Codice appalti prospettate inizialmente nel testo del decreto Semplificazioni, ora convertito in legge, sono rimaste solo le disposizioni relative a nuovi motivi di esclusione dall’appalto per gravi illeciti professionali. È stata, quindi, rinviata a un futuro provvedimento l’integrale riforma del Codice, che presentava la tanto discussa norma “taglia-gare” volta a innalzare da 1 milione di euro a 2,5 milioni di euro la soglia dell’affidamento di un contratto di esecuzione di lavori senza gara ordinaria.