Approfondimenti

Il divieto di commercializzazione di cannabis sativa: le motivazioni delle Sezioni Unite

Come avevamo anticipato, con riguardo alla commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa sativa, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: “La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della L. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicchè la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.

Vediamo adesso con quali motivazioni le Sezioni Unite sono giunte ad enunciare il sopra citato principio di diritto.

Il Supremo Consesso parte dall’analisi letterale dei vigenti testi normativi di riferimento e in particolare:

l’art. 14, comma 1, lett. b) del D.P.R. 309/1990 che nel dettare i criteri per la formazione delle tabelle che includono le sostanze stupefacenti, stabilisce che nella Tabella II debba essere indicata la cannabis e i prodotti dalla medesima ottenuti, senza effettuare alcuna distinzione tra le diverse varietà;
la tabella II, quindi, include fra le sostanze vietate “Cannabis (foglie e infiorescenze)”, “Cannabis (olio)”, “Cannabis (resina), nonché i relativi derivati, a prescindere dal THC presente;
l’art. 26, comma 1, del D.P.R. 309/1990 il quale stabilisce che è vietata la coltivazione delle piante previste nelle tabelle I e II di cui al sopra citato art. 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o altri usi industriali consentiti dalla normativa dell’Unione Europea;
l’ormai nota legge 2 dicembre 2016, n. 242 che, ai sensi dell’art. 1, si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole di cui all’art. 17 della Direttiva 2002/53/CE, che non rientrano nell’alveo di applicazione del T.U. in materia di Stupefacenti, e solo per le finalità ivi indicate.

A parere delle Sezioni Unite, dunque, la L. 242/2016, nel promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della Canapa Sativa, detta disposizioni volte ad incentivare la coltivazione delle varietà di canapa ammesse dalla citata Direttiva Europea, varietà di canapa che si collocano perfettamente nell’ambito delle coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o altri usi industriali.

In altri termini, la controversa novella legislativa non andrebbe a modificare alcunché rispetto al T.U. in materia di Stupefacenti, limitandosi a normare l’eccezione già prevista dal medesimo T.U. all’art. 26, vale a dire la coltivazione della canapa per la produzione di fibre o altri usi industriali.

Da ciò consegue la natura tassativa dei prodotti elencati all’art. 2 della L. 242/2016, con esclusione, dunque, della commercializzazione di infiorescenze, foglie, olio, resina e, più in generale, di ogni derivato che non sia non sia stato previsto dal legislatore del 2016, che, pertanto continua ad essere sottoposto alla disciplina dell’art. 73 del D.P.R. 309/1990 (T.U. in materia di stupefacenti) a prescindere dal valore di THC presente.

Invero, ricordano le Sezioni Unite, la Corte di Cassazione, prima, e la Corte Costituzionale, poi, hanno da tempo affermato che ciò che rileva ai fini della rilevanza penale delle condotte elencate dall’art. 73 D.P.R. 309/1990 non è il quantitativo esatto di THC presente nella sostanza stupefacente analizzata, ma la concreta efficacia drogante della sostanza. Ciò nel rispetto del principio di offensività concreta della condotta incriminata, principio di indubbia rilevanza costituzionale.

Infine, il Supremo Consesso svolge alcune considerazioni in merito alle clausole di esclusione di responsabilità previste dall’art. 4, commi 5 e 7, della legge 242/2016.

La normativa in esame prevede che vengano effettuati controlli a campione sulle coltivazioni di canapa al fine di determinare il livello di THC presente. Ebbene, se il livello di THC rilevato è ricompreso tra lo 0,2% e lo 0,6% “nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni” normative. Se, invece, la percentuale di THC complessivo risulta superiore al valore soglia dello 0,6%, la normativa prevede che possano essere disposti il sequestro e la distruzione della coltivazione, ferma restando l’esclusione di responsabilità in favore del solo agricoltore e non anche del commerciante.

Ricapitolando, le Sezioni Unite ritengono che la L. 242/2016 si limiti a disciplinare l’attività di coltivazione di canapa sativa delle varietà di cui all’art. 17 della Direttiva 2002/53/CE, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre ed altri usi industriali consentiti, eccezione già prevista all’art. 26 del T.U in materia di stupefacenti.

Pertanto, i prodotti elencati nell’art. 2 della L. 242/2016 avrebbero natura tassativa: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato.

In nessun caso, dunque, a parere delle SS.UU. della Corte di Cassazione, sarebbe possibile commercializzare prodotti diversi da quelli elencati dalla normativa in esame, con ciò escludendo la possibilità di commercializzare foglie, infiorescenze, olii, resine.

Vedremo se la futura giurisprudenza di merito e di legittimità seguiranno l’interpretazione offerta dal Supremo Consesso o riterranno di seguire il precedente orientamento – ad onor del vero minoritario –che dalla liceità della coltivazione di cannabis sativa L. fa discendere la liceità anche della commercializzazione dei derivati quali foglie e infiorescenze, purchè contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6%.

Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

Il contratto di agenzia: un confronto fra la normativa italiana e i principi degli ordinamenti tedesco, francese e spagnolo

In forza del contratto di agenzia una parte, l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere per conto di un’altra, il preponente, la conclusione di contratti in una determinata zona, a fronte del riconoscimento di una provvigione.

Tale contratto, da un punto di vista pratico, si adatta perfettamente alle necessità delle imprese di promuovere e commercializzare prodotti e servizi in mercati extra-nazionali senza la necessità di ricorrere a strumenti quali le filiali o la creazione di nuove società.

Con la Direttiva n. 86/653/CE il legislatore comunitario ha dettato una disciplina unitaria per tutti gli Stati membri al fine di armonizzare e coordinare le diverse normative.

Nel dare attuazione alla direttiva europea gli Stati membri hanno interpretato autonomamente ed in parte modificato le diverse norme creando così difformità nella regolamentazione del rapporto di agenzia.

Occorre inoltre tenere presente che secondo quanto previsto dell’art. 3 del Regolamento CE n. 593/2008 (Roma I), alle parti è lasciata la facoltà di scegliere liberamente la legge che disciplina il contratto mentre, nel caso di mancato utilizzo di questa facoltà, l’articolo 4.2 dispone che il contratto venga disciplinato dalla legge del paese nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica della pattuizione ha la residenza abituale.

Trattandosi di strumento molto diffuso è necessario conoscere le differenze che emergono tra la normativa italiana e la disciplina prevista dall’ordinamento tedesco, francese e da quello spagnolo.

 

LA FORMA DEL CONTRATTO

ITALIA: nell‘ordinamento italiano la forma scritta del contratto è richiesta ad probationem. Art. 1742 c. 2 c.c. “Il contratto deve essere provato per iscritto. Ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto che riproduca il contenuto del contratto e delle clausole aggiuntive. Tale diritto è irrinunciabile”.

GERMANIA: non è richiesta necessariamente la forma scritta. Ciascuna delle parti, comunque, può pretendere che il contenuto dell‘accordo venga riversato in un documento scritto. Tale diritto non può essere escluso, ma la prova del contratto e del suo contenuto può essere dato sulla scorta dei comportamenti tenuti dalle parti.

FRANCIA: Il contratto di agenzia non richiede alcuna forma particolare ai fini della validità e non necessita di essere provato per iscritto.

SPAGNA: non è richiesta una forma particolare, fermo restando che la legge dichiara che ciascuna delle parti può, in qualunque momento, richiedere all’altra la formalizzazione per iscritto. È bene precisare che alcune clausole necessitano di forma scritta.

 

DURATA DEL CONTRATTO

ITALIA: la durata del contratto di agenzia è disciplinata dall’art. 1750 c.c. “Il contratto di agenzia a tempo determinato che continui ad essere eseguito dalle parti successivamente alla scadenza del termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all’altra entro un termine stabilito. Il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi.”

GERMANIA: il legislatore tedesco distingue tra rapporto a tempo determinato e rapporto a tempo indeterminato, con una disciplina sostanzialmente conforme a quella italiana. I termini di preavviso previsti per il recesso sono considerati termini minimi, non derogabili. Per accordo delle parti, invece, è possibile stabilire un termine più lungo rispetto al termine minimo previsto dalla legge tedesca.

FRANCIA: Il contratto di agenzia può essere stipulato sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Il Codice prevede che se il contratto a tempo determinato continua ad essere eseguito dalle parti anche dopo la scadenza del termine, automaticamente si ritiene stipulato a tempo indeterminato. Quando il contratto è a durata indeterminata, ciascuna delle parti può recedere dandone preavviso all’altra entro un termine, la cui durata minima non può essere inferiore ad un mese nel corso del primo anno di durata del contratto, due mesi per il secondo anno, tre mesi per il terzo anno e successivi; le parti possono prevedere un termine di preavviso maggiore purché non sfavorisca il mandatario rispetto al preponente.

SPAGNA: I contratti di agenzia, possono essere distinti in contratti a tempo determinato (determinado), ovvero a tempo indeterminato (indefinido). Per quel che riguarda i contratti a tempo determinato va tenuto in conto che questi si estingueranno allo scadere del termine pattuito tra le parti e qualora queste proseguissero il loro rapporto il contratto si considererà trasformato da tempo determinato a indeterminato.

 

L’OBBLIGAZIONE DELL’AGENTE

ITALIA: L‘obbligazione che caratterizza la figura dell‘agente è la promozione e conclusione di contratto di vendita per conto della ditta mandante

GERMANIA: nell’ordinamento tedesco l’obbligazione è sostanzialmente identica a quella prevista dalla normativa italiana, ma si concretizza in maniera completamente diversa. Infatti l‘attività svolta dall‘agente di commercio tedesco può essere rivolta non solo alla promozione e/o conclusione di contratti di vendita ma anche di contratti di acquisto.

FRANCIA: l’agente commerciale viene definito come un mandatario incaricato stabilmente di negoziare, ed eventualmente concludere, dei contratti di vendita, di acquisto, di locazione o di prestazione di servizi in nome e per conto del preponente; è considerato un professionista indipendente e senza alcun vincolo di subordinazione, cui viene attribuita ampia autonomia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro.

SPAGNA: L’agente ha il potere di promuovere gli atti o le operazioni oggetto del contratto ma può concluderli a nome del datore di lavoro solo se è in possesso di tale facoltà. Caratteristiche dell’agente spagnolo simili a quelle dell’agente italiano: attività svolta in maniera continuativa e stabile e indipendenza dell’agente.

 

LA ZONA – IL PORTAFOGLIO CLIENTI – L’ESCLUSIVA

ITALIA: nella normativa italiana la zona e la clientela vanno considerati elementi naturali del contratto. Il diritto di esclusiva è disciplinato dall’art. 1742 c.c. secondo il quale “il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro”.

GERMANIA: diversamente da quanto previsto in Italia, i riferimenti alla zona ed alla clientela sono elementi del tutto eventuali, da prevedere con un accordo specifico tra le parti. L‘ipotesi in cui all‘agente sia assegnata una determinata zona e/o clientela viene definito, appunto l‘agente di zona (figura distinta dall‘agente semplice). Sull‘agente di zona grava un più stringente obbligo di curare i clienti ricompresi nell‘ambito a lui assegnato, a fronte del riconoscimento della provvigione per tutti gli affari conclusi nella zona, indipendentemente dal suo intervento. Figura assai diffusa in ambito commerciale e non prevista espressamente dal codice è quella dell‘agente esclusivista. Le parti in tal caso concordano, per iscritto, non solo l‘assegnazione di una determinata zona, ma anche il divieto per chiunque (preponente incluso) di concludere affari nella zona affidata in via esclusiva all‘agente. Può essere previsto dal contratto anche il diritto di esclusiva in favore del preponente. L‘obbligo assunto dall‘agente di rappresentare una sola azienda deve essere oggetto di uno specifico accordo e non può essere contenuto in contratti unilateralmente predisposti dal preponente.

FRANCIA: l’esclusiva a favore del preponente è implicita, salvo che le parti pattuiscano diversamente. Rappresenta un’ipotesi di colpa grave la conclusione da parte dell’agente di altri contratti d’agenzia con società che commercializzano prodotti concorrenti, quando il contratto stipulato con la prima società gli impediva di rappresentare dei prodotti concorrenti con quelli fabbricati dal mandante. L’agente non può trattare alcun negozio che sia in conflitto di interessi con il preponente.

SPAGNA: l’esclusiva a favore del preponente è eventuale. L’agente, salvo patto contrario, può agire per conto di più preponenti con il consenso del preponente che svolga un’attività con beni o servizi che siano concorrenti o che abbiano natura simile.

 

PROVVIGIONI E INDENNITA’ DI FINE RAPPORTO

ITALIA: l’art. 1748 c.c. stabilisce che “per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento. La provvigione è dovuta anche per gli affari conclusi dal preponente con terzi che l’agente aveva in precedenza acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente, salvo che sia diversamente pattuito. L’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta”. L’indennità di fine rapporto è disciplinata dall’art. 1751 c.c. che riconosce il dovere per il preponente di corrispondere l’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

GERMANIA: Per quanto riguarda il diritto alle provvigioni, in base alla disciplina tedesca, l‘agente ha diritto alla remunerazione se e nella misura in cui il terzo ha dato esecuzione all‘affare. L‘agente ha, inoltre, diritto ad ottenere “un adeguato anticipo” all‘atto dell‘esecuzione dell‘affare da parte del preponente. Tale riconoscimento viene meno solo con la certezza della mancata esecuzione da parte del terzo.
In relazione all‘indennità di fine rapporto la normativa tedesca prevede che l‘agente ha diritto a tale indennità al ricorrere delle seguenti condizioni: incremento portafoglio clienti del preponente; perdita di provvigioni per affari futuri; equità del pagamento dell‘indennità in relazione alle circostanze concrete.

FRANCIA: la provvigione è definita come quella parte di remunerazione commisurata all’andamento dei negozi ed è perciò soggetta ad oscillazioni. L’ammontare può essere concordato liberamente. In mancanza di un accordo, si fa riferimento a quanto viene abitualmente corrisposto in quel determinato settore di attività. Il diritto alla provvigione viene meno quando l’esecuzione del negozio fallisce per cause non imputabili al preponente. In questo caso, l’agente deve restituire al preponente anche le provvigioni eventualmente già ottenute.  Al momento della cessazione del suo rapporto col mandante, l’agente avrebbe diritto ad un’indennità di fine rapporto come corrispettivo del pregiudizio subito; essa dunque non è dovuta sulla base dell’aumento del volume di affari o di clientela operati dall’agente in favore del preponente, bensì sulla base del pregiudizio subito in conseguenza della fine del rapporto. La legge francese, tuttavia, non determina l’ammontare di tale risarcimento. La giurisprudenza francese è solita riconoscere all’agente un’indennità pari al doppio della media annuale delle provvigioni degli ultimi tre anni o sempre più spesso, pari alle provvigioni percepite negli ultimi due anni. Essa può essere superata dalla prova che il danno patito dall’agente sia stato superiore o inferiore alle due annualità “standard”.

SPAGNA: La retribuzione dell’agente è costituita da un importo fisso, da una commissione o da una combinazione delle due forma di retribuzione. Per gli atti e le operazioni concluse nel corso della durata del contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando si verifica una delle seguenti circostanze: (a) l’atto o l’operazione commerciale è stato concluso in conseguenza dell’intervento professionale dell’agente. b) che l’atto o l’operazione commerciale è stato concluso con una persona rispetto alla quale l’agente aveva precedentemente svolto attività di  promozione e, se del caso, concluso un atto o un’omissione, oppure operazione di natura analoga.  A seguito dello scioglimento del rapporto di agenzia, l’agente che abbia apportato nuovi clienti al preponente o incrementato sensibilmente le operazioni con la clientela preesistente avrà diritto ad un indennizzo, laddove la sua attività anteriore possa continuare ad apportargli vantaggi significativi e venga equitativamente valutata in base all’esistenza di patti di non concorrenza, alla perdita delle commissioni e alle altre circostanze ricorrenti. L’indennità da clientela è dovuta anche in caso di recesso anticipato del preponente.

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La commercializzazione dei prodotti della canapa sativa: il no delle Sezioni Unite.

Da giorni ormai si sente dire che la Corte di Cassazione ha sancito che non si possono più vendere i derivati della canapa sativa.
Ebbene si.. è vero. Lo ha reso noto il Servizio Novità della Corte Suprema di Cassazione con l’informazione provvisoria n. 15 del 30 maggio 2019. 
In particolare, le Sezioni Unite hanno stabilito che «la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».
Ad oggi, non è dato sapere quale sia il ragionamento logico-giuridico seguito dal Supremo Consesso per giungere a tale conclusione. Lo sapremo quando verranno pubblicate le motivazioni della sentenza che tutti gli operatori del diritto – e non solo – stanno attendendo e che noi di Firenze Legale provvederemo a commentare subito dopo.
Quello che, per il momento, possiamo fare, in attesa di leggere le motivazioni, è tentare di capire quale fosse il contrasto giurisprudenziale in materia di vendita di canapa sativa e quali fossero le argomentazioni poste a sostegno dell’uno e dell’altro orientamento.
Andiamo per ordine.
Un primo indirizzo ermeneutico, che adotta un’interpretazione più letterale della norma, ritiene che la L. 242/2016 legittimi soltanto l’attività di coltivazione della canapa per le finalità espressamente indicate nell’art. 1, comma 3, attività tra le quali non figura la commercializzazione e/o cessione al pubblico dei derivati della pianta coltivata.
Da ciò conseguirebbe, a parere di tale indirizzo, l’inclusione delle attività di detenzione, cessione o commercializzazione al dettaglio dei prodotti della canapa sativa nell’alveo del D.P.R. 309/1990 (c.d. Testo Unico in materia di stupefacenti) a prescindere dal quantitativo di THC presente nel prodotto (fatta eccezione, chiaramente, per quei prodotti che siano totalmente privi di efficacia drogante e, dunque, con THC inferiore allo 0,2%).
Secondo un diverso orientamento, più estensivo, il legislatore del 2016 non avrebbe ricompreso la commercializzazione tra le attività e le finalità ammesse, in quanto tale attività sarebbe il risultato scontato ed implicito nella stessa coltivazione.
Invero, tale indirizzo parte dal presupposto che la L. 242/2016 mira a promuovere e sviluppare la “filiera agroindustriale della canapa” e non cita le attività successive alla coltivazione semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare a riguardo.
Se, infatti, la coltivazione di canapa con THC inferiore a 0,6% è legale ed ammessa non si comprende per quale motivo non dovrebbe essere legale ed ammessa la commercializzazione del prodotto di quella stessa coltivazione.
Peraltro, continua tale orientamento, è evidente come il legislatore, individuando la soglia di THC consentito nello 0,6%, abbia voluto individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela della salute e dell’ordine pubblico e la tutela dell’iniziativa economica libera.
L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite non ha preso posizione in favore né dell’uno, né dell’altro indirizzo, limitandosi a sottolineare gli aspetti salienti di entrambi gli orientamenti e lasciando, quindi, alle Sezioni Unite l’arduo compito di chiarire se fosse legittima o meno la commercializzazione dei derivati della canapa sativa.
Vedremo come le Sezioni Unite intenderanno motivare tale netta decisione. Se, in altri termini, faranno proprio il ragionamento riconducibile al primo dei due orientamenti contrapposti o se, viceversa, aggiungeranno qualcosa a tale ragionamento, individuando – magari – alcune eccezioni alla regola generale.

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Non è nulla la vendita immobiliare in caso di difformità della costruzione rispetto al titolo edilizio menzionato nell’atto.

Non è raro il caso di proprietari di immobili che, nel momento in cui avviano le operazioni di vendita, si trovano, anche inaspettatamente, a dover affrontare questioni legate alla conformità dei titoli edilizi relativi all’immobile.

Problematiche di questo genere sorgono non solo in casi di veri e propri abusi edilizi non sanati, ma anche laddove vi siano difficoltà nel ritrovare la documentazione catastale ed urbanistica presso i competenti uffici pubblici.

Sennonché, recentemente la giurisprudenza si è espressa sul tema delle nullità c.d. formali o testuali nel contratto di compravendita immobiliare (disciplina, peraltro, applicabile anche a tutti gli atti a titolo gratuito aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali).

In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza del 22 marzo 2019 n. 8230, hanno affermato che la nullità dei contratti aventi ad oggetto diritti reali su immobili da cui non risultino gli estremi del permesso di costruire o della istanza di sanatoria (art. 46 d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 17 e 40 l. n. 47/1985) va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c. e deve qualificarsi come nullità testuale. In presenza della menzione degli estremi del permesso di costruire o dell’istanza in sanatoria, il contratto è valido a prescindere dalla conformità o difformità della costruzione realizzata rispetto al titolo edilizio menzionato nell’atto di trasferimento.

Non può invece ravvisarsi (oltre ad una nullità formale) anche una nullità sostanziale e virtuale ex art. 1418 co. 1, per contrarietà a norme imperative in ragione di difformità sostanziale della costruzione rispetto al titolo abilitativo.

Pertanto sussistendo il requisito di forma richiesto dalla legge (ovvero menzione degli estremi del permesso di costruire o dell’istanza di sanatoria) l’eventuale difformità sostanziale non comporta nullità del contratto, ma rileva esclusivamente in termini di inadempimento che giustifica la risoluzione del contratto.

Nella stessa ottica, è stata esclusa la nullità dei contratti aventi ad oggetto immobili, nel caso in cui le dichiarazioni previste dalla l. n. 47/1985, Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, artt. 17 o 40, siano state rese ma non siano conformi al vero.

In altri termini, la nullità prevista dalla l. n. 47/1985 (e ora l. n. 380/2001) assolve la sua funzione di tutela dell’affidamento, sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria.

Alla rigidità della previsione consegue che, come non può essere attribuita alcuna efficacia sanante all’esistenza della concessione o sanatoria che non siano state dichiarate nel contratto di compravendita di un immobile, così, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.

Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione.

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Rent to buy: schema contrattuale e ambito applicativo

La formula del rent to buy consente al soggetto richiedente di poter entrare immediatamente in possesso di un immobile versando un canone periodico per un periodo determinato dalle parti, con la possibilità, in futuro, di poter acquistare quello stesso bene ad un prezzo inferiore, detraendo dal prezzo di acquisto i canoni già corrisposti.

Tale istituto è disciplinato dall’art. 23, comma 1, del D.L 133/2014 convertito con L.  164/2014, che ha subito modifiche con il D.L. 59/2016 “Salva Banche”.

Per effetto della stipula del contratto, il proprieta­rio dell’immobile ha l’obbligo di consegnare subito l’immobile o l’area al conduttore, che in cambio deve corrispondere il canone pattuito. Qualora alla scadenza del termine, il conduttore decida di procedere all’acquisto dell’immobile, il concedente è obbligato a trasferirlo ed il conduttore deve corrispondere quanto pattuito al netto della parte già corrisposta mediante i canoni. Qualora, invece, il conduttore decida di non acquistare l’immobile, il contratto cessa di avere effetto ed il concedente si riappropria dell’immobile, corrispondendo contestualmente al conduttore la parte di canone imputabile all’eventuale futura vendita.

La norma disciplina alcuni aspetti del contratto, il regime di trascrizione, la risoluzione, l’inadempimento e la sorte del contratto nelle ipotesi di fallimento del concedente, lasciando tuttavia massima libertà alle parti per quanto riguarda la regolamentazione dei principali aspetti, in particolare con riferimento alla durata, ai limiti massimi dei canoni da scomputare, nonché dei canoni minimi che dovranno essere versati.

In pratica, nel momento in cui viene stipulato il contratto del rent to buy viene stabilito il prezzo dell’immobile che resterà fisso per la durata del contratto, pari a tre anni, ora prolungata a dieci per dare maggior spazio alle parti nella determinazione del periodo di godimento. Il conduttore, in base a quanto accordato con il proprietario, dovrà sborsare un acconto, generalmente pari al 15% del valore dell’immobile.

Data l’importanza delle due componenti dei canoni periodici corrisposti dal conduttore al concedente, nel contratto del rent to buy deve necessariamente essere indicato, a pena di nullità del contratto, l’importo del canone corrisposto per il godimento dell’immobile (come in una locazione) e l’importo corrisposto come parte di quanto dovuto nel caso di futura cessione.

La norma prevede l’obbligo di trascrizione del contratto ai sensi dell’art. 2645-bis c.c., che dovrà quindi rivestire la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con la produzione dei medesimi effetti di cui all’art. 2643, 1° comma, n. 8, c.c..

Per le ipotesi di risoluzione, la norma afferma espressamente che il contratto si risolve in caso di mancato pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di canoni, determinato dalle parti, non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo”. Il comma 5 sancisce che nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento del concedente, “lo stesso deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali”; viceversa, se la risoluzione per inadempimento dipende dal conduttore, “il concedente ha   diritto   alla restituzione dell’immobile ed acquisisce interamente i canoni a titolo di indennità, se non è stato diversamente convenuto nel contratto”.

Con riferimento, all’inadempimento, la norma prescrive che trova applicazione l’art. 2932 c.c. sull’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, secondo il quale la parte non inadempiente può ottenere una sentenza che produce gli stessi effetti del contratto non concluso.

Il comma 6, infine, si occupa del fallimento del concedente e del conduttore: nella prima ipotesi, il contratto prosegue, fatta salva l’applicazione dell’art. 67, comma 3, lett. c), L.F. sulla revocatoria fallimentare; nella seconda, si applica l’art. 72 L.F., per cui spetta al curatore decidere se sciogliere o meno il contratto.

 

Rent to buy di azienda

Lo schema negoziale del rent to buy può essere utilizzato anche per soddisfare bisogni di natura non abitativa, ma aziendale, commerciale, professionale, imprenditoriale e/o strumentali alle stesse e dunque può avere ad oggetto oltre che un edificio abitativo, un edificio strumentale ed anche un’area agricola o strumentale ed anche un immobile in costruzione.

In particolare, con riferimento al rent to buy di azienda, si è espresso il Consiglio Nazionale del Notariato, che ha inquadrato tale schema contrattuale come il collegamento tra due contratti (in genere affitto di azienda e preliminare di cessione di azienda) che permette di entrare subito nel godimento dei beni dell’azienda, inizialmente in affitto con pagamento di un canone periodico (fase “rent”), e successivamente diventarne proprietari (fase “buy”) in un periodo di tempo prefissato attraverso l’acquisto vero e proprio e il pagamento del relativo prezzo, dal quale vengono scomputati, in tutto o in parte, i canoni pagati in precedenza.

Tale operazione comporta per l’acquirente un indubbio vantaggio dal punto di vista creditizio-finanziario, in quanto si ottengono i beni dell’azienda senza corrispondere fin da subito l’intero prezzo e con la conseguente possibilità di ottenere più facilmente un finanziamento al momento dell’acquisto pari al minor importo del prezzo ancora dovuto, in considerazione di quanto anticipato con i canoni. Mentre, per l’alienante, il beneficio principale oltre ad ampliare le possibilità di vendita del bene, è quello di alleggerire i costi di gestione che possono essere scaricati sull’acquirente. E’ importante precisare che nel periodo in cui si gode dell’immobile (paragonabile alla locazione), le imposte legate al possesso del bene sono a carico del proprietario, come in qualsiasi contratto di affitto.

 

 

Profili fiscali:

Con la circolare n. 4/E/2015 del 19.02.2015, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito il trattamento fiscale applicabile al contratto, affermando che: “Per quanto attiene al godimento dell’immobile, considerato che il contratto in esame comporta l’immediata concessione del godimento dello stesso a fronte del pagamento dei canoni, si ritiene che detto godimento deve essere assimilato, ai fini fiscali, alla locazione dell’immobile e, pertanto, per la quota di canone imputata al godimento dell’immobile trovano applicazione le disposizioni previste, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i contratti di locazione. Con riferimento ai canoni corrisposti dal conduttore, l’articolo 23, comma 1, chiarisce che le parti imputano al corrispettivo del trasferimento una quota di canone indicata nel contratto. Tale quota di canone che ha natura di anticipazione del corrispettivo del trasferimento deve essere assimilato, ai fini fiscali, agli acconti prezzo della successiva vendita dell’immobile. In sostanza, il trattamento fiscale da applicare al canone corrisposto dal conduttore deve essere diversificato in considerazione della funzione (godimento dell’immobile e acconto prezzo) per la quale dette somme sono corrisposte. In caso di esercizio del diritto di acquisto dell’immobile trova applicazione la normativa prevista, sia ai fini delle imposte dirette che delle imposte indirette, per i trasferimenti immobiliari “.

 

In sostanza:

le somme versate per il godimento del bene sono assoggettate alle disposizioni regolanti le locazioni sia per le imposte dirette che indirette. I canoni di locazione versati per il godimento di immobile ad uso abitativo restano in esenzione IVA a meno che il concedente sia un’impresa di costruzione e scelga il regime di imponibilità IVA. Allo stesso regime soggiacciono i fabbricati ad uso strumentale salvo che i soggetti passivi optino per l’imponibilità.
le somme imputate ad anticipazione del prezzo restano regolate dalla normativa tributaria in tema di acconti-prezzo e dunque assoggettate a imposta di registro (se gli acconti-prezzo sono soggetti ad IVA l’imposta di registro è dovuta nella misura fissa di € 200,00).
le somme corrisposte per il trasferimento definitivo dell’immobile alla momento della stipula della vendita sono da assoggettare alle ordinarie regole in tema di trasferimenti immobiliari, e al fine di evitare una duplicazione di imposte, devono tenere conto della tassazione sui canoni versati anticipatamente.

 

Approfondimenti

Equity crowdfunding: uno strumento alternativo per finanziare piccole e medie imprese.

Il Crowdfunding è una procedura di raccolta fondi attraverso la quale un gruppo di persone contribuisce, con il proprio denaro, alla realizzazione di un’idea innovativa o allo sviluppo di un progetto.

Esistono quattro modelli di crowdfunding:

DONATION CROWDFUNDING: è il modello utilizzato dalle organizzazioni no profit e onlus per il supporto delle loro attività benefiche. Il donatore che finanzia non riceve alcuna ricompensa materiale.
REWARD CROWDFUNDING: in tal caso i produttori del progetto offrono una ricompensa a chi li finanzia. Generalmente chi investe in questi progetti riceve in cambio il prodotto realizzato grazie alla raccolta fondi.
LENDING CROWDFUNDING:

è un prestito tra soggetti senza l’intervento degli intermediari finanziari. In sostanza vengono prestati i soldi ai richiedenti, che possono usare la piattaforma di crowdfunding per realizzare il proprio progetto e restituire il denaro una volta che il progetto sarà completato.

EQUITY CROWDFUNDING: a differenza delle altre forme di crowdfunding, questa permette a chiunque di entrare a far parte del capitale sociale di una società, una volta raggiunto l’obiettivo di raccolta prestabilito dal soggetto che ha richiesto il finanziamento. L’investitore diventa quindi socio a tutti gli effetti, acquisendo un vero e proprio titolo partecipativo oltre al diritto di percepire dividendi sugli utili e capital gain nel caso di cessione della propria quota.

 

LA NORMATIVA ITALIANA SULL’EQUITY CROWDFUNDING

L’Italia è uno dei pochi paesi al mondo ad aver applicato una normativa completa e chiara che disciplina il funzionamento dell’equity crowdfunding.

Tale normativa è stata introdotta dal D.L. n. 179/2012 che, consentiva il ricorso al finanziamento tramite crowdfunding solo alle imprese con la qualifica di start-up innovative. Successivamente, con il D.L. n. 3/2015, è stato consentito l’accesso al crowdfunding anche alle PMI innovative.

Nel 2017 è stata ammessa la quotazione tramite portali di crowdfunding anche alle PMI, non innovative, prima sono nella forma di società per azioni, poi estesa a tutte le PMI anche nella forma di SRL.

Anche la legge di Bilancio 2019 è intervenuta sul tema dell’Equity Crowdfunding, prevedendo alcune misure volte ad incentivare il ricorso a questo canale alternativo di finanziamento per le PMI.

Le novità:

Incremento del beneficio fiscale per chi investe in startup e PMI innovative:

per gli investimenti in startup e PMI innovative, viene aumentata dal 30 al 40% la detrazione dall’imposta per le persone fisiche e la deduzione dal reddito per le persone giuridiche.

Inoltre, viene introdotto un incentivo per favorire le acquisizioni di startup innovative e, dunque, le “exit” per chi aveva investito in precedenza, per esempio tramite una campagna di equity crowdfunding: le società (posto che non siano esse stesse start-up innovative) potranno dedurre dal proprio imponibile il 50% del valore dell’investimento nel caso in cui acquisiscano l’intero capitale sociale di start-up innovative, a condizione che le quote siano acquisite e mantenute per almeno 3 anni.

Emissione di bond tramite piattaforme di equity crowdfunding

Il crowdfunding viene esteso al debito offrendo così alle PMI un’ulteriore modalità di accesso al credito. Infatti, con il comma 236 dell’articolo 1 (che modifica l’articolo 1 comma 5-novies del TUF), la raccolta di capitali attraverso piattaforme che facilitano l’incontro fra domanda e offerta di finanziamento viene estesa, dal 1° gennaio 2019, anche alle obbligazioni o ad altri strumenti di debito, oltre che alle emissioni di azioni.

LE PIATTAFORME

Le operazioni di raccolta del capitale di rischio possono essere fatte esclusivamente all’interno di un portale online autorizzato e monitorato dalla CONSOB.

Ecco alcune tra le piattaforme di crowdfunding che hanno lanciato campagne di maggior successo:

MamaCrowd è nata nel 2016 ed ha raccolto oltre 10 milioni di euro per le campagne. Tra i progetti chiusi con successo c’è My Cooking Box, una startup che permette di preparare facilmente piatti della tradizione gastronomica italiana grazie a box con ingredienti già dosati e ShapeMe, il primo servizio per prenotare massaggi a domicilio (o in ufficio) in ogni momento.

StarsUp fondata nel 2013 è il primo portale ad aver ottenuto l’iscrizione al registro per la raccolta di capitale di rischio da parte di startup e PMI istituito dalla Consob.  Una delle campagne chiuse con successo è per SkyAccounting, un software cloud di fatturazione e contabilità per commercialisti, aziende e partite IVA.
CrowdFundMe è la piattaforma di equity crowdfunding più grande d’Italia. Per capitali raccolti, numero di investitori e campagne portate a termine. Tra le startup e le aziende lanciate dalla piattaforma ci sono CleanB&B, una startup per gestire affitti brevi e case vacanza.

Walliance è il primo portale italiano di Real Estate equity crowdfunding. Questa modalità di raccolta fondi per permette a tutti di avere accesso al mercato immobiliare con investimenti che partono da 500 euro.  Tra i progetti chiusi con successo rientra la realizzazione nel quartiere della comunità artistica di Wynwood a Miami (FL) di un edificio misto residenziale/commerciale e la conversione di Palazzo Cavour a Firenze, da edificio scolastico in residenziale.
CAMPAGNE DI EQUITY CROWDFUNDING: IL NUOVO BANDO 2019

La preparazione ed il lancio di una campagna di crowdfunding richiede un investimento iniziale sufficiente a coprire gli adempimenti preliminari: la predisposizione della documentazione finanziaria (business e financial plan), gli adempimenti legali e societari (informazioni sull’offerta, la delibera di aumento di capitale e le modifiche allo Statuto) e gli aspetti di comunicazione multimediale (realizzazione di un video descrittivo del progetto, creazione di storytelling e realizzazione del piano di comunicazione).

Al fine di agevolare il ricorso a questa forma alternativa di finanziamento, a marzo 2019 è stata avviata un’iniziativa sperimentale: la Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi ha pubblicato il primo bando finalizzato ad agevolare le imprese nel ricorso all’equity crowdfunding.

E’ stata prevista una dotazione di Euro 100.000 ed il finanziamento avviene tramite l’erogazione di voucher fino a 5.000,00 € che l’impresa può utilizzare per coprire alcune tipologie di spesa:

redazione di un business plan o di altra documentazione richiesta dai gestori della piattaforma Internet;

spese legali per l’adeguamento dello statuto o per altri adempimenti legali connessi alla realizzazione della campagna di crowdfunding;

redazione del Documento Informativo;

revisioni di bilancio o altre attività richieste dai gestori delle piattaforme Internet;

comunicazione e promozione legate alla campagna di crowdfunding;

realizzazione di pitch o di video di presentazione per presentare la campagna di crowdfunding.

Il voucher concesso alle imprese copre fino al 50% dei costi ammissibili, sulla base di un investimento minimo di 5mila euro.

Approfondimenti

GDPR 2016/679: adeguamento semplificato per Enti del terzo settore

GDPR 2016/679: ESISTE UN ADEGUAMENTO “SEMPLIFICATO” PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE?

Come ormai noto alla stragrande maggioranza degli operatori economici del nostro Paese, il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR).
Ciò che non è altrettanto noto è che questo regolamento si applica tanto alle realtà che perseguono un profitto (enti, società e/o professionisti in genere), quanto agli Enti del Terzo Settore o associazioni no profit, che dir si voglia.
Anche agli Enti del Terzo Settore, infatti, al pari di ogni altro soggetto che tratta dati personali, è imposto di adottare tutta una serie di misure di sicurezza a livello documentale, a livello informatico e a livello organizzativo.
Anzi, a ben vedere, sono proprio gli Enti del Terzo Settore che devono porre un’attenzione ancora maggiore all’”aspetto privacy” visto che, nella maggior parte dei casi, trattano dati relativi alla salute dei propri utenti e spesso lavorano con enti o amministrazioni pubbliche che, verosimilmente, molto presto, inseriranno l’adeguamento alla normativa privacy come requisito per partecipare a questo o quel bando pubblico.
Ma vediamo, più nel dettaglio, quali sono le misure “minime” che un’Associazione di Volontariato deve adottare per essere GDPR compliant.

L’attività di mappatura e di individuazione delle misure di sicurezza adottate
La prima attività dal quale ogni ente – profit o non profit – dovrebbe partire è una mappatura dei trattamenti effettuati e delle modalità con cui vengono trattati.
Partendo da tale aspetto, anche le associazioni potranno, da un lato, rendersi conto dei trattamenti effettuati grazie alla redazione del Registro dei Trattamenti, e, dall’altro, individuare le misure di sicurezza in essere e quelle che invece dovrebbero essere adottate.
Si badi bene, le misure di sicurezza e le prassi operative interessano tanto la gestione del dato a livello cartaceo/documentale, quanto e soprattutto il trattamento del dato a livello informatico.
Per tale motivo sarà necessario “mappare” anche il trattamento effettuato con mezzi informatici mediante il c.d. GDPR Assessment, verificando quali misure di sicurezza sono già state adottate dall’associazione per evitare la perdita e/o il trattamento illecito del dato (ad es. presenza di screensaver con password nei pc, presenza di credenziali di accesso al server, presenza di antivirus, salvataggio in cloud dei dati, criptazione dei dati ecc.) e quali, viceversa, dovranno essere adottate con l’aiuto, nella maggior parte dei casi, di un tecnico informatico.
La predisposizione delle informative
A livello documentale, una volta individuate le categorie di trattamento effettuate, non si potrà prescindere dal predisporre un adeguato sistema di informative con cui l’Associazione dovrà comunicare i propri associati, utenti, dipendenti, volontari e fornitori o collaboratori esterni del tipo di trattamento che l’Associazione effettua, delle finalità perseguite, delle modalità con cui viene posto in essere il trattamento, del periodo di conservazione dei dati (si badi bene, i dati personali raccolti non possono essere tenuti per sempre!), oltre che dei diritti che ogni interessato può vantare nei confronti della stessa associazione.
 La redazione delle Autorizzazioni al trattamento e delle Nomine a Responsabile
Ci sarà, poi, da predisporre le autorizzazioni al trattamento da consegnare ai dipendenti e/o volontari che materialmente effettuano le attività di trattamento e da individuare e nominare Responsabili Esterni tutti quei soggetti, appunto, esterni all’associazione (ad es. il commercialista, il consulente del lavoro, il tecnico informatico, il fornitore di server o gestionali ecc.) che trattano dati personali per conto dell’ente del terzo settore.
L’adozione di nuove procedure aziendali
Il nuovo sistema privacy impone, infine, l’adozione di una serie di cautele a livello operativo.
Sarà quindi indispensabile anche per l’ente no profit adottare delle nuove procedure maggiormente rispettose della riservatezza del dato trattato.
Senza procedere ad un esame delle singole procedure adottabili, anche mediante l’adozione di un Modello Organizzativo di Gestione che le ricomprenda, c.d. MOG Privacy – procedure che inevitabilmente non potranno e non dovranno essere standardizzate, ma adattate alla singola realtà dell’ente – preme spendere alcuni brevi cenni sulla procedura di Data Breach, che, più di altri aspetti, ha generato il panico tra gli operatori nazionali.

Per Data Breach si intende la violazione delle misure di sicurezza adottate che comporta la perdita, la distruzione, la modifica, la divulgazione o l’accesso non autorizzati di dati personali di cui è Titolare l’ente. In casi del genere, ai sensi dell’art. 33 del Regolamento Europeo 2016/679, l’associazione ha l’obbligo di informare, entro 72 ore dalla scoperta della violazione, l’Autorità di controllo, informandola del tipo di violazione, delle categorie di dati violati, del numero approssimativo di interessati coinvolti, dei dati di contatto del Responsabile della Protezione dei Dati o di altro soggetto incaricato dall’Associazione, delle probabili conseguenze che deriveranno dalla violazione e delle misure di sicurezza adottate per porre rimedio alla violazione medesima e per attenuarne le conseguenze negative.

Ad ogni modo, a prescindere dai singoli documenti da predisporre o dalle singole procedure e/o misure di sicurezza da adottare, è fondamentale comprendere ed attuare il c.d. principio dell’accountability che consiste nell’informazione e nella conseguente responsabilizzazione del Titolare del trattamento, vale a dire, per quanto qui maggiormente interessa, dell’Ente del Terzo Settore.
Ogni Titolare, poi, avrà una sorta di potere discrezionale per individuare le misure documentali, operative e informatiche da adottare sulla base dei propri mezzi a disposizione.
Ciò che è veramente fondamentale è quantomeno iniziare il processo di adeguamento alla normativa privacy, così da poter dimostrare in caso di controlli – che, pare, abbiano già avuto inizio – che l’ente si sta adeguando ed evitare l’applicazione delle sanzioni previste.

Approfondimenti

Legge 11/2019 di conversione del Decreto Semplificazioni (D.L. 135/2018): gravi illeciti professionali

La legge n. 11/2019 converte in legge il Decreto 135/2018 in materia di misure di semplificazione della P.A.
Il testo legislativo riguarda le materie sanità, ambiente, agricoltura, giustizia, istruzione e formazione artistica e musicale, università e ricerca, con diversi interventi volti ridurre il complesso degli adempimenti amministrativi per cittadini e imprese.
Per quanto concerne la materia degli appalti, il D.lgs. 50/201 6viene modificato, in materia di esclusione dalla gare per gravi illeciti professionali, dall’art 5 della legge 11/2019.
Più nel dettaglio, viene sostituita la lettera c) del comma 5 dell’articolo in questione, che quindi introduce la possibilità di escludere dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico, qualora la stazione appaltante dimostri, con mezzi adeguati, che esso si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
Prima dell’approvazione del decreto legge Semplificazioni, il Codice dei contratti prevedeva, a titolo esemplificativo, alcune condizioni al verificarsi delle quali la stazione appaltante avrebbe potuto escludere un operatore economico dalla partecipazione ad una gara, dopo aver dimostrato con mezzi adeguati la sua condotta illecita. L’elenco delle cause di esclusione per gravi illeciti professionali, contenute alla lettera c) del comma 5, era stato considerato non tassativo dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, 2 marzo 2018, n. 1299).
Con il decreto Semplificazioni e con la conseguente legge di conversione, il testo dell’articolo 80, comma 5, lettera c) viene allineato alla direttiva europea 2014/24/Ue. In particolare, è stata adeguata l’indicazione introduttiva che rende tassativo l’elenco delle cause di esclusione.
Dunque, così come riformulato, il testo prevede che la stazione appaltante possa escludere l’impresa purché dimostri, con mezzi adeguati, che l’operatore economico si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
Inoltre, ai sensi delle nuove lettere c-bis) e c-ter) le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore, qualora l’operatore economico abbia:
– tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (lettera c-bis);
– dimostrato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili. Su tali circostanze la stazione appaltante deve motivare anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa (lettera c-ter).
Delle possibili rilevanti modifiche al Codice appalti prospettate inizialmente nel testo del decreto Semplificazioni, ora convertito in legge, sono rimaste solo le disposizioni relative a nuovi motivi di esclusione dall’appalto per gravi illeciti professionali. È stata, quindi, rinviata a un futuro provvedimento l’integrale riforma del Codice, che presentava la tanto discussa norma “taglia-gare” volta a innalzare da 1 milione di euro a 2,5 milioni di euro la soglia dell’affidamento di un contratto di esecuzione di lavori senza gara ordinaria.

Approfondimenti

Smart contracts e normativa italiana

SMART CONTRACTS E NORMATIVA ITALIANA

 

La Legge n. 12/2019, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 12.02.2019, Legge Semplificazione, all’articolo 8 ter, comma 3, tra le altre cose ha elaborato la definizione della tecnologia basata sui Registri distribuiti e degli smart contract, affermando che:

Art. 8-ter (Tecnologie basate su registri distribuiti e smart contract):  

1. Si definiscono “tecnologie basate su registri distribuiti” le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l’aggiornamento e l’archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili.

2. Si definisce “smart contract” un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o piu’ parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia digitale con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

Una riflessione ed analisi relativa agli smart contracts rende necessario un breve accenno alla blockchain, il cui obiettivo principale era quello di consentire trasferimenti di denaro senza avvalersi degli intermediari. Per semplificare, la blockchain può essere intesa come un Registro, ogni unità del registro è un blocco ed i blocchi sono collegati tra loro nell’ordine in cui sono stati creati attraverso il meccanismo della crittografia, che li lega in modo virtuale e non modificabile.  Le transazioni sono realizzate all’interno della catena ed il processo di estrapolazione dei dati è effettuato sulla base di calcoli matematici effettuati da un dispositivo.

In altre parole, la funzionalità principale della blockchain è quella di garantire che qualsiasi transazione può essere originata e completata direttamente tra due soggetti su una rete aperta e programmabile.

E’ proprio sulla piattaforma blockchain che vengono memorizzati gli smart contracts.

La chiave è l’idea che la funzionalità del Registro delle transazioni della blockchain potrebbe essere utilizzata per registrare, confermare e trasferire tutti i tipi di contratti e per effettuare i trasferimenti di proprietà, con ciò riferendosi, a titolo esemplificativo e non esaustivo:

transazioni finanziarie: azioni, private equity, crowfunding, obbligazioni, fondi comuni di investimento, vitalizi, pensioni e tutti i tipi di derivati;
trasferimenti sui pubblici registri: titoli di proprietà immobili e terreni, registrazioni di veicoli, licenze commerciali, certificati di morte;
l’identità digitale può essere confermata con la blockchain attraverso la patente, le carte d’identità, il passaporto;
impegni economici dei privati: cambiali, prestiti, contratti, scommesse, trust.

Provando a compiere un ulteriore sforzo definitorio e partendo dall’assunto che il contratto è l’accordo tra due o più parti, per perfezionare il quale è necessario che ciascuna parte si fidi dell’altra parte per soddisfare la propria obbligazione, si può affermare che gli smart contracts hanno ad oggetto lo stesso tipo di accordo (contratto), ma viene meno la necessità della fiducia tra le parti, in quanto il contratto è sia definito dal codice, sia eseguito dal codice automaticamente e senza discrezione. Pertanto, in quest’ambito il contratto è visto come un metodo per formare accordi con persone tramite blockchain.

Le caratteristiche principali degli smart contracts possono essere individuate in: Autonomia, Autosufficienza e Decentramento.

Con Autonomia s’intende che il contratto una volta che è stato lanciato ed è funzionante, non vi è necessità di ulteriori contatti tra gli agenti.

Con Autosufficienza è fatto riferimento alla capacità tramite il meccanismo di blockchain di gestire le risorse, ossia raccogliere fondi fornendo servizi, per esempio attraverso emissione di titoli, reperimento delle risorse necessarie, e autonomia nell’elaborazione e archiviazione.

Per Decentramento si intende l’assenza di un singolo server centralizzato, ma la distribuzione dei dati, auto-eseguibili attraverso il nodo di rete.

Questo sistema di attività attivate crittograficamente, porta a varie considerazioni, prima di tutto quella che vi è la necessità di creare nuove leggi e regolamenti che disciplinino attentamente questo nuovo “istituto”, l’Italia si è mossa in questo senso nel fornire per la prima volta una vera e propria definizione di smart contracts come sopra individuata, ponendosi anche l’obiettivo di definirne alcuni aspetti fondamentali volti a darne un’applicazione sempre più concreta. L’Agenzia per l’Italia digitale individuerà gli standard tecnici e le tecnologie basate su registri distribuiti che debbono possedere ai fini della produzione degli effetti di cui al comma 3 entro 90 giorni dall’entrata in vigore della Legge semplificazioni.

Approfondimenti

Legge di Bilancio 2019: affidamento diretto negli Appalti Pubblici.

La legge di bilancio 2019 ha inserito alcune modifiche di non poco conto al codice degli appalti pubblici.

La novità più rilevante è senz’altro quella contenuta all’articolo 1, comma 912 (Comma 529-bis dell’emendamento 1.9000 del Governo)  dell’ultima versione della manovra, è introdotta, fino al 31 dicembre 2019 e nelle more di una complessiva revisione del Codice dei contratti pubblici, una deroga alle procedure di affidamento dei contratti pubblici di lavori, al fine di elevare la soglia prevista per l’affidamento di lavori con procedura diretta fino a 150.000 euro, e applicare la procedura negoziata, previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici, per lavori da 150.000 fino a 350.000 euro.

In buona sostanza gli affidamenti di servizi e forniture restano inalterati, mentre i lavori pubblici vengono affidati secondo le seguenti modalità:

per importi inferiori a 40.000 euro, mediante procedura diretta, anche senza previa consultazione di due o più operatori economici (art. 36, comma 2, lett. a) del Codice dei contratti);
per importi da 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro, mediante affidamento diretto previa consultazione, ove esistenti, di 3 operatori economici (art. 36, comma 2, lett. a) del Codice dei contratti integrato con le deroghe introdotte dall’articolo 1, comma 912 della legge finanziaria 2019);
per importi pari o superiori a 150.000 euro e inferiore a 350.000 di euro, mediante procedura negoziata con consultazione di almeno dieci operatori economici ove esistenti (art. 36, comma 2, lett. b) del Codice dei contratti integrato con le deroghe introdotte dall’articolo 1, comma 912 della legge finanziaria 2019);
per importi pari o superiori a 350.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, mediante procedura negoziata con consultazione di almeno quindici operatori economici ove esistenti, (art. 36, comma 2, lett. c) del Codice dei contratti).

L’affidamento diretto per lavori di importo inferiore a 150.000 euro dovrà comunque avvenire nel rispetto dei principi di cui all’articolo 30, comma 1 del Codice dei contratti, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese.

In ogni caso, per gli appalti sotto soglia si dovrà fare riferimento alle linee guida ANAC n. 4 dell’1 marzo 2018 recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici” le quali con ogni probabilità subiranno una modifica di adeguamento rispetto al contenuto della legge di bilancio.

A completamento del quadro delle modifiche riguardanti gli affidamenti diretti, si segnala l’innalzamento della soglia dei micro-acquisti da € 1.000 a € 5.000: l’art. 1, comma 130 dispone che le amministrazioni statali centrali e periferiche non sono obbligate a fare ricorso a MEPA, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore a 5.000 euro.